domenica 31 gennaio 2010

Corpo


Un po' di tempo fa ho letto un libro molto affascinante. E' un romanzo di Hanif Kureishi e si intitola "The body". Racconta di un uomo di mezza età che per degli eventi fortuiti si vede offrire un cambio di corpo. Si reca in una clinica dove viene accompagnato in una cella frigorifera a scegliere il suo neo-corpo. Dopo averne visti vari,ne trova uno giovane, bello, muscoloso. I chirurghi trapiantano il suo cervello nel neo-corpo, l'uomo si sveglia dopo l'operazione e ri-comincia questa nuova vita. Potrebbe essere il sogno di molti o l'incubo di alcuni.
Il finale delle belle storie non si racconta mai. Chi è curioso, può leggerlo e soddisfare la propria curiosità.
Ho sempre creduto che i nostri corpi siano avvolti da un'aura di sacralità per via della loro unicità. I nostri corpi sono opere d'arte irripetibili a prescindere dalla loro riconosciuta bellezza o bruttezza. Ognuno di noi ha il suo e nei giorni della nostra vita li usiamo, li vediamo, li tocchiamo, li consumiamo lentamente - tutto ciò senza neanche accorgercene per la massima parte del tempo.
Penserete che questa riflessione sia frutto di una visione materialista delle cose, come ci si aspetterebbe da uno come me, ma permettetemi di dirvi che non è così. E' proprio per il connubbio tra corpo e spirito, per l'unicità che da questa fusione deriva, che ritengo i nostri corpi sacri, intoccabili, non più riproducibili.
"Segnare il proprio corpo, significa costruirsi un corpo segnato" scriveva non so più chi in un saggio sul transessualismo/transgenderismo. L'arte, l'usanza, l'abitudine, il folclore di segnare il proprio corpo è materia di antico studio etno-antropologico su cui non oso soffermarmi, poiché non ritengo di averne le competenze necessarie.
Mi è capitato proprio ieri di assistere a uno spettacolo che qualcuno definisce body art. Corpi vilipesi, straziati, doloranti, appesi, infilzati, colorati, lacerati, denudati, esibiti in scene per me raccapriccianti.
Non riesco a raccogliere le parole giuste per definire la sensazione di sdegno e di disgusto che ciò ha provocato in me. Mi riesce difficile anche descrivere come vorrei, queste esibizioni che qualcuno definisce arte. E proprio perché qualcuno le definisce arte, per rispetto, evito di definirle con parole mie che tutto rappresenterebbero, meno che l'espressione artistica.
Le facce. Quelle sì, riesco a descriverle. Le facce degli astanti. Perse, ammirate, incredule, attratte da tanto dolore ostentato, da tanta violenza, da tanto accanimento, da tanto strazio su questi corpi. Decine e decine di volti di uomini e donne che consumavano con i propri occhi queste scene. Famelici. Questo è stato per me il vero spettacolo. Vederli persino applaudire. Applaudivano un massacro.
Mentre l'iconografia rappresenta di solito il raccapriccio davanti alla scena di tortura di Cristo o di altri personaggi religiosi o laici, oggi un nuovo quadro rappresenterebbe questi visi con la gioia dell'osservazione dello strazio. Espressione ossimorica, qualcuno direbbe. Ed è proprio di questo ossimoro che non riesco a capacitarmi; mi rifugio quindi nella consapevolezza di essere un po' limitato, nel non riuscire a concepire questa gioia che si deriva dall'osservazione estasica dello strazio.
Sono stato costretto a reinventare la mia modalità di fruizione dello spettacolo per trovare un senso alla serata. E ho scoperto che è nell'osservazione delle persone che riescono a identificare elementi artistici in tanto orrore che sta il mio spettacolo.
Con la conclusione che costringerei i tanti, e soprattutto ai performer, ad andare a bagnarsi nei già copiosi fiumi di sangue che madre natura sta facendo scorrere ad Haiti.

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