domenica 26 settembre 2010

Crisi

In questi giorni, i ricordi delle strade del paese tornano alla mia coscienza con cruda violenza.
Non sono ricordi visivi, sono ricordi di suoni.
Aggrappato a uno dei miei libri recuperati chissà dove, ascolto il garrire sfinente delle rondini, le urla di decine di ragazzi per strada, il cuocere del sole sull'asfalto, il rombare di qualche motorino smarmittato.
Siamo la generazione della doppia crisi.

In quegli anni un negozietto era aperto ad ogni angolo delle strade, ero un fanciullo e potevo andare ovunque mi pareva, a patto che quell' "ovunque" fosse situato nel giro di qualche centinaio di metri da casa. Non mancava nulla, c'era davvero di tutto: dai piccoli alimentari alle botteghe degli artigiani.
Il rumore dello sferragliare dell'officina di mio padre, il saldatore del fabbro, il suono delle stoviglie che proveniva dagli appartamenti allo scoccare del mezzogiorno.
Eravamo tanti e giovani, gli appartamenti erano tutti pieni. Le case erano abitate, quasi tutte.
Poi sono diventato adolescente, l'età della confusione, quella in cui ero freddamente cosciente di non capire nulla. E invece, crescevo e capivo sempre di più. Ma la presa di coscienza è stata cruda e rapida.
Mentre crescevo e cominciavo a capire quali fossero le mie vie di fuga, quale fosse il mio destino, le mie aspettative, tutto attorno a me si avviava verso una triste descrescita e decadenza. Era arrivata la crisi. Ero troppo adolescente per capire chi mi avesse imposto quella crisi, da dove venisse e, soprattutto, perché dovessi pagarne io le conseguenze.
I rumori dell'adolescenza svanivano assieme alle mie speranze di diventare grande, di crescere, di fare progresso, di riscattare la povertà in cui erano cresciuti i miei genitori.
Le botteghe pian piano chiudevano. Il fabbro quasi non saldava più. Gli alimentari avevano tirato giù le serrande; per sempre. La signora di mezza età che lo gestiva non faceva altro che cucinare sughi in casa e fare le pulizie. Il vecchio registratore di cassa era rimasto intrappolato in una polverosa busta di cellophane.
Ma la cosa peggiore fu quando vidi le prime valigie. Quelli più grandi di me non c'erano più per strada. Finito il liceo, cominciavano a pronunciare, con sguardo rassegnato e affascinato al contempo, i nomi delle grandi città: Milano, Roma, Napoli... Andavano a studiare, per non fare più ritorno.
Sono cresciuto con la coscienza che tutto attorno a me si stesse svuotando: le case, le scuole, le strade. I figli dei vicini di casa ritornavano per le feste a riempire il corso del paese con i propri racconti di piccole e grandi emigrazioni.
Quella crisi è stata la prima a segnare la mia vita, come quella di tanti altri che per costruire il proprio futuro hanno dovuto caricarsi sulle spalle uno zaino pieno di rimorsi di coscienza.
Presto sarebbe toccato a me.

Quei ricordi si sono sedimentati e, sicuramente non per caso, sono riaffiorati adesso.
Ho quasi trent'anni. A quest'età c'è la voglia di lavorare, di costruirsi un futuro, una famiglia, organizzandosi ognuno come si può...
E invece anche qua, nella grande città, anche in questo momento - in cui dovrei guardare fiducioso al futuro - non ho assistito altro che alla fuga di persone che sono poi scomparse in qualche aereo per non fare più ritorno. Il mondo è di nuovo in crisi, ancora una volta, brutto scherzo del destino, quando le mie aspettative erano ai massimi.
E invece, ancora valigie sugli usci delle porte, ancora treni, case che si svuotano, ancora aerei e ancora la solita domanda: perché paghiamo sempre noi? La risposta ha il peso emotivo pari a quello di un camion di catrame bollente che ti viene versato addosso, mentre guardi l'azzurro del cielo.
Oggi però ho una coscienza del "fuori da me" più ampia di quella del sempliciotto adolescente. So che paghiamo un prezzo che non dovremmo pagare noi. Che noi siamo solo le vittime di un sistema che ci considera piccole macchine produttrici di reddito, di PIL e che se per qualche ragione diventiamo improduttivi, siamo pronti ad essere lasciati indietro alle nostre precarie miserie.
E nel contempo assistiamo alle squallide vicende di un paese in cui la corruzione risiede nei palazzi delle istituzioni e convive con le associazioni di mafiosi, in cui lo squallore ha preso il posto della dignità e del buon costume, in cui i diritti di molti soccombono a favore dei privilegi di pochi, in cui i giovani che faticosamente si sono costruiti una propria - seppur precaria, come dev'essere - identità, se la vedono demolire a colpi d'ascia da chi amministra con scelleratezza quel che rimane della cosa pubblica.
Una nuova crisi mi avvolge. Questa però è più violenta, perché non è fatta solo di soldi che non ci sono più, ma di valori che vengono sotituiti da disvalori e da turpità.
Altroché incoscienza adolescenziale. Adesso la coscienza di persona adulta che si vede deprivare passo passo della propria dignità grida con forza una rabbia insopprimibile. Mentre tutt'attorno, tutto tace, la coscienza civile è intorpidita e un silenzio assordante stordisce, il mio furore dell'essere per la seconda volta nella vita vittima di un'altra crisi vorrebbe gridare fino a finire il fiato e a seccare la gola.

mercoledì 1 settembre 2010

A qualche giorno dal silenzio

Ho un disperato bisogno di malinconia. Mi sento solo in un mondo di gente che sembra conoscersi.
Le prime avvisaglie dell'autunno mi avviluppano in un silenzio interiore che mi stordisce. Le vacanze sono solo un vuoto (lo dice la parola stessa, ma abbiamo dimenticato il significato delle parole; un vuoto che mi separa dal bisogno di confondermi nel pieno totalizzante delle facce sconosciute che mi ronzano attorno mentre percorro le strade.
Mi costringerò al contatto umano per qualche tempo e poi scomparirò. Sono già stanco di chi mi dice come si deve fare, di chi mi implora di fare, di chi mi chiede di non fare, di chi non dice, di chi fa per non lasciare fare agli altri.
Ecco, è ora di prendere una pausa da tutto ciò.
Eppure il nuovo anno è appena cominciato. Capodanno non è il primo di gennaio. Capodanno è oggi, almeno per me.
In realtà, quest'anno non mi sento di volere accogliere. Sento una forte e irreprimibile necessità di eliminare ancora, di repellere ed espellere.
Ancora un po' di giorni di contatto umano forzato e poi mi sentirò libero di reagire.
Si possono percorrere strade che non si conoscono? Anche senza una guida. L'importante non è ricercarsi, è smarrire il senso del tempo e delle cose. Sembra ormai l'unico mezzo per sorvolare ad occhi chiusi la mancanza di senso del reale.

Proprio come la panchina del pratone dell'università che nessuno ha mai pensato di rimuovere. La gente non potrebbe mai immaginare che una panchina davanti a un prato possa rappresentare il senso di smarrimento profondo e di disperazione di un essere umano. Se mai fossi capace di dipingere e reinterpretare L'urlo di Munch, io disegnerei una panchina.
"May the big city bury you alive."
Non so davvero se possa rappresentare un grande risultato il fatto che sia stato io a seppelire la città e ad inghiottirla nel mio ventre. Ora mi si sta rivoltando contro e cerca di scaraventarmisi addosso con veemenza.
La mia mente va agli autunni piovosi di quelle giornate piene di speranze. Vorrei tornare anche solo per un attimo a emozionarmi fra i polverosi corridoi dell'università a riscoprire giornate vissute a metà. Guardo invece i ricordi passare come un passeggero annoiato che dopo ore di treno osserva perso il paesaggio fuori dai finestrini bagnati da una fredda pioggia che con violenza colpisce un treno. Vorrei per un attimo riuscire a ripercorrere quei momenti, perché è stato in uno di quei giorni che mi è sfuggito il senso della musica che accompagna le mie giornata. E la melodia adeso mi suona stonata; peggio, insensata.
"Please help me find the pause button."
A qualche giorno dal silenzio, stringo forte i denti e mi ripeto che sprofonderò nel nulla delle mie giornate e ripeterò a me stesso che se credevo di aver paura, avevo torto. Mi sono preso solo una piccola vacanza per il mio cuore. Respiro l'aria che mi spinge avanti.
A qualche giorno dal silenzio tenterò di convincermi che se credevo che fosse tutto finito, avevo torto.

Cercavo le radici misteriose di questa città e mi sono detto "La verità è nascosta in quell'attimo in cui pensi di capire che la vita ti è passata davanti proprio con il soffio d'aria che non hai respirato. Quindi adesso respira."
La risposta l'ho trovata solo qualche minuto più tardi.
"Vorrei trovare qualcuno a cui potere rivelare quegli attimi tanto intimi da non essere in grado di rivelare nemmeno a me stesso. - -- -- Sono costretto quindi alla solitudine più assoluta."
A qualche giorno dal silenzio tutto ciò è un fardello troppo pesante da sopportare.