venerdì 23 luglio 2010

Il secondo assalto a un KFC


(liberamente ispirato a M. Haruki)

Quando ci ripenso, credo di avere davvero commesso un errore abbastanza grave. Ma ci sono delle cose che accadono senza il nostro controllo e non è possibile dire se è giusto o no, accadono e basta. Però, se quella sera avessi taciuto, forse sarebbe stato meglio.
In quei giorni faceva davvero caldo. Nell’appartamento non circolava un filo d’aria e l’afa era davvero opprimente. Nonostante l’appartamento fosse rimasto al buio tutto il giorno, anche dentro faceva un caldo insopportabile e nemmeno stare completamente nudi aiutava.
Dall’esterno provenivano i rumori soliti, tipici di un appartamento della periferia romana. Qualcuno che a tarda sera cercava ristoro nell’acqua fredda dal caldo intollerabile lavando i piatti, altri che ancora credevano che distrarsi guardando la televisione potesse essere un metodo utile per dimenticare il caldo e qualcuno che invece chiacchierava al cellulare affacciato alla finestra. Tutto ciò era relativamente inutile, perché il caldo continuava ad imperversare anche durante la notte.
S. quella sera aveva deciso di rimanere a dormire da me, perché il mio appartamento, nonostante tutto, era relativamente fresco rispetto a molti altri e sicuramente al suo. Inoltre, si era fatto davvero tardi.
Quella sera eravamo andati a bere una birra all’isola pedonale. C’era un’atmosfera veramente gioiosa per strada, gente di tutti i tipi camminava chiacchierando o si fermava ai lati della strada stravaccata sui marciapiedi o persino sull’asfalto a fumare sigarette o bere bevande di ogni sorta. Il sole aveva abbandonato la scena e il buio si stava impadronendo lentamente delle strade e copriva i vestiti dei passanti. Stavamo parlando delle nostre vite passate, ovvero di quel lasso di tempo che intercorre fra una conoscenza e un altro. Quel periodo di tempo che intercorre fra un modo e un altro, quando per una strana congiunzione poi due vite si intersecano e cominciano a produrre un pezzo di passato. Il momento in cui si crea il passato.
Di ritorno a casa mi venne in mente che non avevo davvero nulla da mangiare nel frigo, il vuoto assoluto. C’era di certo qualcosa da bere, una lattina di coca cola. Ma nessun tipo di cibo, forse un limone e un uovo. Fummo presi da una fame inspiegabile, una fame fuori dalla norma. Immediatamente pensai che era stato per colpa della birra. Mai bere una birra a stomaco vuoto, poiché come una malefica pozione, oltre a provocare un leggero senso di stordimento, crea una sensazione di nulla cosmico nello stomaco, apre le cataratte della fame repressa in tutto l’arco della vita.
Fatto stava che davvero non c’era nulla da mangiare e i negozi erano tutti chiusi da un pezzo. Era troppo tardi persino per trovare aperti quei posti tipo minimarket gestiti dagli immigrati del quartiere. Fu in quel momento che S. cominciò a raccontarmi, fra i vari aneddoti di quel suo passato, un episodio davvero curioso.
“Ero con degli amici ad A. e quel giorno eravamo stati tutto il giorno in giro per la città. Era uno di quei viaggi che si fanno da studenti, quando si hanno moltissime energie e pochi soldi in tasca. Come dire, i soldi non bastano mai per dare vita a tutte le energie che si hanno in magazzino.”
“Posso immaginare – aggiunsi io – siamo stati tutti adolescenti in un certo momento della nostra vita. E poi A. è proprio una città che sembra essere stata costruita apposta per i bisogni dei giovani: c’è tutto quello che un giovane potrebbe volere da una città. Incredibile!”
“Sì. Proprio così. Solo che eravamo alla fine della vacanza e ci restavano a mala pena i soldi per comprare il biglietto per tornare in aeroporto e alle 2 di notte dopo una giornata passata in giro eravamo veramente affamati. Non sapevamo cosa fare, proprio come adesso. Uno dei nostri amici disse di avere ancora dieci euro in tasca e che quindi avrebbe potuto comprare un panino con pollo panato. Alla notizia sgranammo tutti gli occhi, anche se ci dicemmo che certo soltanto un panino non sarebbe bastato per sfamare cinque persone con quella fame. Ad ogni modo, ci avviamo verso l’ostello dove eravamo alloggiati e strada facendo incontrammo un fast food. Entrammo e comprammo un panino. Il posto era invaso dal tipico profumo dei fast food, che quando si è sazi provoca il voltastomaco, mentre quando si è affamati, accende una sorta di fame chimica che non ti fa smettere di mangiare e non colma la sensazione di avere lo stomaco vuoto nemmeno dopo un’abbuffata. Il nostro amico riccone andò alla cassa e noi altri ci sedemmo al primo tavolo libero. Il locale era quasi vuoto, ancora una mezz’ora avrebbero chiuso. C’erano solo altri due ragazzi che avevano già svuotato i vassoi e che infatti dopo qualche minuto si dileguarono Tutto sommato c’era andata bene a trovare il posto aperto. Erano rimasti solo tre dipendenti nel negozio e i poveracci avevano delle facce stanchissime. Il nostro amico prese la banconota dal portafoglio, aggiustò la cifra con qualche spicciolo e prese in mano il panino che aveva ricevuto dal dipendente del fast food. Con aria molto mesta si avvicinò al tavolo. Quando scartò il panino fummo avvolti da un profumo indicibile e alcuni di noi avevano l’acquolina che trasudava dai lati della bocca.”
“Certo che esperienze assurde che si fanno da ragazzi!”, esclamai.
“Aspetta, il bello deve ancora arrivare. Il panino non poteva essere suddiviso in cinque parti perché in mezzo aveva questa cotoletta croccantissima impanata e non avevamo un coltello, né tanto meno ptevamo chiedere che ce lo tagliassero in cinque parti. Avrebbero pensato che eravamo dei poveracci. Quindi decidemmo di dare un morso ciascuno. Io mangiai per penultimo e quindi mi rimase, come era immaginabile, il pezzo più piccolo.”
Per qualche motivo quella scena mi fece venire in mente la scena dei sopravvissuti a un incidente aereo sulle Ande che per la fame mangiarono la carne dei cadaveri dei passeggeri morti. Ma non la rievocai, era troppo trucida.
“Il poveraccio che mangiò per ultimo aveva un pezzo di lattuga, uno sbuffo di maionese e un micro pezzo di pollo. Quando il panino fu finito, non ci rimase che guardarci sconsolati. La fame era tutt’altro che spenta e gli stomachi gorgogliavano rumorosamente, tant’è che nonostante la musica di sottofondo, ogni tanto si sentivano rumori assurdi provenire dai nostri stomaci, come delle sorgenti morenti nel fondo di un pozzo. Uno di noi pensò di spendere gli ultimi soldi e comprare un altro panino, ma gli facemmo notare che là tutto si poteva fare meno che fare i portoghesi sui mezzi pubblici e che quindi gli conveniva non spendere gli ultimi spiccioli se l’indomani voleva arrivare in aeroporto e ripartire.”
Io non potei fare a meno di pensare che il nostro problema quella sera era tutto, meno che i soldi. Avevamo entrambi soldi sufficienti per riempire un carrello della spesa. Il problema era trovare la materia prima e un posto dove pagarla!
“Ad ogni modo, decidemmo che sarebbe stato opportuno lasciare stare. Ad un certo punto stavamo quasi per alzarci, quando uno dei nostri cominciò a parlare a bassa voce e ci disse: ‘Io a questa fame non resisto. Rubiamo qualche panino!’. Io rimasi sbigottito all’affermazione. Non avevo mai rubato nemmeno una mela marcia da un albero in vita mia, figuriamoci svaligiare un fast food. Mentre io e un altro della ciurma rimanemmo sbigottiti e contrariati, gli altri due invece fecero un sorriso malizioso, come a fare percepire che l’idea non fosse totalmente malsana e che ci potevano stare. Un altro chiese: ‘Ma come facciamo?’ L’altro, prontamente rispose: ‘Fingiamo un malore. Tu fai finta di avere uno svenimento o che ti è preso un accidenti mentre vai in bagno. Così i dipendenti verranno tutti verso di te, vedendoti cadere a terra, si allontaneranno sufficientemente dal balcone e si distrarranno. Noi andiamo verso il cibo e riempiamo gli zaini di panini. Questi tre cretini non se ne accorgeranno.’”
“Non mi dire che l’avete fatto davvero!”, interruppi io.
“Certo che sì. Io ero il palo, nel senso che dovevo correre verso il malcapitato che fingeva il malore e gonfiare la vicenda urlando: ‘E’ morto! E’ morto!’ e cose del genere. Insomma la scenetta venne benissimo… Salvo che uno dei tre dipendenti a un certo punto si accorse che gli altri tre dei nostri non erano accorsi con me e, insospettito, si girò un attimo verso il bancone, accorgendosi della malefatta.”
“Scommetto che siete finiti in una gattabuia.”, dissi costernato.
“Proprio no! Il ragazzo che aveva finto il malore si alzò di scatto, mi strattonò, diede un pugno a uno dei tre e nella concitazione del momento, schizzammo tutti fuori dal fast food veloci come la luce. Non ci inseguì nemmeno la polizia, solo uno dei tre provò a inseguirci per un pezzo in strada, ma rinunciò subito. E poi, perché fare tutte quelle storie, quei tre deficienti sapevano che quei panini sarebbero andati buttati di lì a breve! Era ora di chiusura!”
“Non ci posso credere! Riesci anche a giustificare un furto!”, esclamai.
“Non lo giustifico, lo motivo! Ad ogni modo i ladruncoli dei miei amici avevano preso ben tredici panini, varie cosce di pollo panate e una serie di salse. Una volta all’ostello facemmo un banchetto meraviglioso!”
La storia mi aveva lasciato interdetto e mi aveva persino distratto dalla fame terrificante che ci aveva assaliti. Da una parte cominciavo ad essere solidale con i ladri di panini, cominciavo a capire cosa significasse. S. era stato molto onesto nel confessare questo misfatto. Da uno come lui, tutto mi sarei aspettato, meno che avesse collaborato a un furto… Ad ogni modo, mi era tutto più chiaro adesso: alla fame non si comanda. Mentre io ero assorto nelle mie elucubrazioni su quanto fosse giusto compiere un crimine finalizzato alla soddisfazione di un bene materiale fondamentale e indispensabile per la sopravvivenza come quello di mangiare, vidi che S. fece una strana faccia.
“Spero – disse - che tu non pensi che io sia un criminale.”
“Ma figurati… tutt’al più un piccolo ladro!” dissi io.
“No, è che in realtà questa situazione mi fa pensare a quella sera. Perché eravamo tutti così affamati da arrivare persino a compiere un gestaccio del genere? Me lo sono sempre chiesto. Noi eravamo i tipici bravi ragazzi poco più che diciottenni in viaggio post-laurea… i nostri genitori ci avevano lasciati partire a soli, proprio perché si fidavano di noi ciecamente e sapevano che non avremmo mai compiuto un atto di questo genere.”
“E invece!” lo interruppi.
“Sai, credo che questa sia una maledizione.”
“Cosa??!” esclamai io, incredulo.
“Sì, questa è una maledizione. E sono convinto che per chiudere il cerchio che si è aperto quella sera, devo svaligiare un altro KFC.” disse con fare serio.
“Ma….”
Non mi diede nemmeno il tempo di parlare che disse: “Io sono convinto che le maledizioni vanno chiuse, perché altrimenti continuano a ritornare ciclicamente nella vita. E questa sensazione di fame che ci ha presi adesso è proprio la stessa di quella sera. Non so spiegartelo meglio, ma è così! Devi fidarti!”
Cominciai a pensare che la birra a stomaco vuoto doveva avergli fatto proprio male. Doveva essere vittima di qualche allucinazione.
“Ad ogni modo, dissi, qui nella nostra città non c’è un KFC. Il più vicino si trova oltre confine! Quindi è meglio andare a dormire e metterci una pietra sopra!”
Vidi la sua faccia contrariata. Si alzò di scatto e mi disse: “Dammi qualche minuto”, andò nel mio studio e si assentò per una ventina di minuti. Quando tornò aveva un foglio in mano e con fare pomposo e con un sorriso da coccodrillo che sta azzannando voracemente un malcapitato gnu affacciatosi su una pozza per dissetarsi, mi disse: “Prepara una valigia. Domani mattina partiamo per V. Tanto abbiamo il fine settimana libero. Torniamo in serata!”
“Cosa??? – esclamai io – Ma ti ha dato di volta il cervello? Non ci posso credere. Ma a questo punto fra qualche ora apriva un qualsiasi bar e avremmo potuto mangiare quanti cornetti volevamo!”
“Ma cosa dici? Noi dobbiamo andare ad assaltare un KFC. Il volo più economico verso una destinazione non troppo lontana dove ci sono dei KFC era questo, quindi adesso dobbiamo andare.”
Dopo una brevissima discussione, mi resi conto che oramai il dado era tratto. Cosa avrei potuto fare? Rassegnato presi una valigia, la riempii con pochissime cose essenziali, giusto per una scampagnata, e la richiusi. Intanto lui aveva già prenotato un taxi, perché il volo era davvero all’alba. Era uno di quei voli per l’est Europa che le compagnie aeree programmano a orari improponibili, ma svendono a prezzi bassissimi. In un batter d’occhio ci ritrovammo a V. In aeroporto mi disse di fermarci perché doveva spiegarmi quale fosse il KFC migliore per compiere un assalto.
Aveva studiato ogni minimo dettaglio. Io ero a dir poco incredulo. Essendo estate, la città sarebbe stata di per sé semi deserta. Quindi disse che il luogo più appropriato, non potendo farci aiutare dal buio poiché il volo di ritorno era verso le quattro del pomeriggio, era il KFC in un quartiere dove c’erano solo uffici e che in quel periodo sarebbe stato quindi deserto.
Al solo pensiero di dovere compiere un’azione criminosa, mi veniva una tachicardia incontrollabile, mentre lui sembrava tranquillissimo, anzi aveva sul viso l’espressione tipica di chi stesse per soddisfare uno di quegli istinti primordiali da sempre repressi. Avrei avuto in quel momento condividere anche un solo pizzico di quella sensazione. Quando lo vidi prendere il suo marsupio con fare davvero astuto, mi prese un colpo.
Tirò fuori un paio di bombolette, sembrava del deodorante. “Questo è spray al peperoncino. Lo porto con me quando vado a recuperare la macchina in stazione quando esco da lavoro tardi. Il parcheggio dove la lascio è davvero sinistro e quindi avere un po’ di questo mi fa stare più tranquillo. Hanno scippato un sacco di gente in quel posto.” La mia sensazione di incredulità aumentava. Avevo davanti un criminal mind e non me n’ero mai accorto in tanti mesi di frequentazione. Cominciavo a pensare che ci saremmo messi seriamente nei guai e che potevo rinunciare definitivamente alla mia reputazione.
Intanto le ore erano passate, quindi proposi di mangiare qualcosa, perché il mio cervello cominciava a sragionare, ma lui si oppose con veemenza, dicendo che fra qualche ora avremmo avuto tutti i panini al pollo e le ali di pollo panate e fritte che avremmo voluto. All’idea, il cervello si rischiarò, anche se ogni volta che intravvedevo dall’autobus che ci portava in centro un supermercato o un ristorante, il mio stomaco faceva un sobbalzo. Diceva che per chiudere il cerchio della maledizione dovevamo per forza rimanere digiuni e mangiare i panini di KFC.
Arrivammo a destinazione. Effettivamente aveva ragione. Non c’era anima viva. Solo qualche passante solitario e raro camminava lungo i muri degli edifici per ripararsi dal sole rovente. Le aveva studiate davvero tutte. Immediatamente accanto all’uscita del locale c’era anche l’ingresso della metropolitana, dove saremmo dovuti scappare dopo l’assalto. Ero esterrefatto dalla minuziosità del piano, non so proprio come avesse fatto a studiare tutti quei dettagli.
Entrammo nel posto. Al bancone c’era una ragazza bionda un po’ paffutella e non troppo alta. Un altro ragazzo esile e biondo anch’egli friggeva la roba nel retro e un altro ragazzo stava facendo pulizia ai tavoli. Si attardò a guardare il menù con lo sguardo vago del turista che non capisce la lingua e cerca di capire le cose attraverso le immagini. Attese che il ragazzo che puliva i tavoli andasse sul retro e si guardò con aria circospetta per vedere la clientela. Non erano nemmeno le 11 e mezza e l’unico cliente era un signore gracile, così magro da sembrare un fantasma che sembrava mezzo addormentato dietro lo schermo di un PC portatile. Mi disse di rimanere a fianco alla porta e di prepararsi alla fuga una volta finito il colpo. Io non avrei dovuto fare nulla, solo rimanere vicino alla porta e usare lo spray al peperoncino solo in caso ce ne fosse stato bisogno, ma mi rassicurò dicendomi che non ce ne sarebbe stato bisogno. Parlava anche a voce altissima, con una foga incredibile, rassicurato dal fatto che i tre malcapitati non avrebbero capito una parola.
Si avvicinò al bancone e ordinò 20 panini con cotoletta di pollo, 4 cesti maxi e 8 ali di pollo. Chiese due coca cola e disse che era tutto a portar via. Non so come, ma in inglese riuscì a spiegare che voleva pagare la coca cola con uno scontrino separato… Io pensavo che oramai eravamo a un passo dalla follia.
Fatto sta che pagò la coca cola e conservò scrupolosamente lo scontrino, mettendo via il portafogli e tenendo una mano nel marsupio. Io atterrito guardavo la scena dalla porta e ogni volta – capitò solo due volte – che vedevo qualcun avvicinarsi alla porta sobbalzavo. Ma le uniche due persone tirarono dritto senza degnare di uno sguardo il locale. Passò un tempo interminabile e quando il bustone pieno delle cibaglie fu appoggiato sul tavolo tirò fuori lo spray e ne spruzzò una quantità indescrivibile addosso alla povera malcapitata che cominciò ad urlare in modo tremendo. L’uomo che era seduto al tavolo sobbalzò e capito che si trattava di una rapina si alzò dal tavolo con una tale veemenza che quando fece per correre via inciampò nel cavo del pc, che finì a terra con un tonfo micidiale e si diresse correndo verso la porta. Io, preso dal panico, tirai fuori lo spray a mia volta e lo minaccia senza avere nemmeno il tempo di spruzzare perché l’uomo si diresse verso il bagno correndo come un pazzo e lo sentimmo chiudersi dentro.
Quando gli altri due ragazzi accorsero S. mi fece cenno di avvicinarmi al bancone e di prendere le altre due buste. Mentre facevo questo la poveretta era rovinata a terra inciampando e urlava come una forsennata. Quando gli altri due si avvicinarono, uno corse verso di me, ma io fui pronto a dargli il ben servito con un’altra buona quantità di spray. Il poveraccio si diresse verso il bagno e sentii uno scroscio d’acqua. L’altro invece, avvicinatosi al bancone cercò di scavalcarlo, ma S. impugnò lo spray e il malcapitato se lo trovò a qualche centimetro dalla punta del naso. Al che il ragazzo si immobilizzò e S. con tono molto pacato gli disse:
“Dammi tre barattoli di salsa. Voglio pagare.”
Il povero fece una faccia rassegnata, aveva ormai capito di trovarsi di fronte a due matti. Prese la salsa, prendendo a calci nella foga la poveraccia che intanto si dibatteva sul pavimento e prese le monete che S. gli porgeva. S. gli chiese lo scontrino. S. prese lo scontrino e lo mise in tasca. Io rimasi sbigottito.
Mi fece un cenno di ok con il pollice in alto. Presi le buste e fuggimmo via lasciando i poveri malcapitati alla loro sorte.
In un battibaleno fummo nella metropolitana e il treno ci portò verso la stazione dell’aeroporto. Io ero convinto che la polizia a un certo punto ci avrebbe individuati e sbattuti in galera. Lui era convinto che non sarebbe successo assolutamente nulla. Con il cuore in gola, mentre il treno percorreva le buie gallerie sotterranee venivo invaso da ondate di odore del cibo nei due bustoni. L’acquolina in bocca e il cuore in gola.
Arrivati in aeroporto, S. mi accompagnò verso un’area poco fuori dal terminal, abbastanza degradata e solitaria. Faceva un caldo micidiale, ma eravamo all’ombra. La coca cola nella fuga si era versata per metà e il sacchetto di carta cominciava a lacerarsi. Il resto era tutto perfettamente intatto, anche se le confezioni un po’ ammaccate. Bivaccammo su quel marciapiede e mangiammo con voracità tutto. Spolpammo le alette di pollo mangiando fino all’ultima briciola di impanatura. Quando rimase l’ultimo panino prese la salsa rimasta e la versò sopra per poi azzannarlo fino all’ultimo boccone.
Per il momento la fame era stata placata. Era come se avessimo messo un enorme tappo sul Vesuvio. La falla era stata colmata. I nostri sguardi assomigliavano a quelli degli ingegneri della British Petroleum quando otturarono la falla della piattaforma petrolifera esplosa nel Golfo del Messico.
Al che, ci guardammo l'un l'altro per un attimo con sguardo perso. “Perché hai voluto pagare la salsa?”, chiesi.
“Noi dovevamo assaltare il locale solo per il cibo, non per le bevande o altro.”
Cosa avrei potuto controbattere? Presi la risposta così come m'era stata data e la incamerai nel cervello, proprio come quando un’onda ti colpisce all’improvviso mentre tu, con il cervello altrove, stai guardando il mare da un parapetto.
Quando salimmo in aereo e la hostess gli chiese la carta d’imbarco per i controlli, lui tirò fuori lo scontrino della salsa e, nonostante le proteste della hostess, con aria tremendamente soddisfatta per il trofeo esibito, tirò diritto e andò a sedersi al suo posto.
Rassegnato lo seguii.