lunedì 27 dicembre 2010

Caro Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

ti sembrerà strano che ti scriva solo adesso, ma finora il tuo sogno mi è stato scippato. Ho quasi trent'anni è vero, ma non ti stranire. Fra poco ti sarà tutto più chiaro e capirai perché ricevi la mia prima letterina solo a quest'età.
Mi sono sempre chiesto quanti anni abbia tu, ma non ho mai avuto una risposta. Mi hanno detto solo che sei molto vecchio, per questo motivo spero che tu non ti faccia problemi per la mia età oramai non più tenera.
E non stupirti nemmeno che ti scrivo solo ora. La letterina te la mando adesso che Natale è passato, perché spero che da qui all'anno prossimo tu abbia abbastanza tempo per riflettere sulle mie considerazioni. So che saranno difficili da esaudire e anche da prendere semplicemente in considerazione. Ma perché dovrei scriverti altrimenti a quest'età? Ho una carta di credito tutta mia (prima del furto... è vero... )quindi posso comprarmi tutto quello che voglio, quindi a te chiederò solo cose che non si possono comprare con i soldi e con le fatiche.

Vorrei che non ci fosse più sofferenza. Quest'anno ne ho vista molta attorno a me. Ho visto una persona attraversare un tunnel molto lungo, in cui la realtà era accecata. Ho visto sulla sua faccia un'immensa sofferenza, smarrimento e dolore. Incomprensione per quello che le stava succedendo, incapacità di analizzare le radici profonde di questo male.
Ti prego, regala il sorriso a tutti quelli che mi vogliono bene, proprio quel sorriso che ho visto sulla sua faccia quando dal tunnel è uscita con la speranza di non doverci mai più fare ritorno.

Vorrei che ci fosse sempre l'amore. Quest'anno sono stato fortunato e penso di averne ricevuto molto. Ci tiene in vita ed accende le speranze. Ne ho visto fiorire molto anche nei torridi mesi estivi, quando i fiori soffrono sfiancati dalla calura. Ho visto dei sorrisi, del buonumore, ho visto una compagnia di cui non godevo da tempo.
Ti prego, fai in modo che questo amore possa crescere e diventare sempre più forte davanti a un mondo che lo vorrebbe estinto, invisibile e represso. Fai in modo che avremo la forza di coltivarlo nonostante le intemperie e le circostanze avverse che lo circondano, sarà così che ritroveremo forse la speranza che anche questo amore è possibile.

Vorrei che la salute fosse data per tutti. Ho visto stanze del mio ufficio svuotarsi, temporaneamente o definitivamente. Persone che hanno dato la propria vita alla causa, lottando per i più poveri e per i meno abbienti di diritti. Ho visto queste persone sudare per fare in modo che i meno fortunati fossero uguali a noi. Ho assistito a riti multireligiosi che commemoravano la scomparsa di queste persone: in un'unica sala dieci dèi diversi invocati contemporaneamente, ma tutti uniti nella speranza che quell'anima buona trovi la pace duratura. Ho visto un'amica uscire dagli ospedali e tornare a ballare con me, la gioia negli occhi di essere emersa da un cumulo.
Ti prego, fai in modo che anche l'anno prossimo io e tutti coloro che stanno per unirsi alla causa dell'aiuto ai più disperati e bisognosi possano trovare in loro l'energia per continuare a lottare in questo paese dalla politica cattiva, malefica ed egoista.

Vorrei che il passato fosse un amico e non un coltello brandito a sorpresa dietro una porta. Spero nella riconciliazione con ciò che mi è appartenuto, nel lontano passato da bambino al paese del sud desolato dal quale ti scrivo e nel vicino passato da adulto nella capitale. Vorrei che questi due mondi un giorno si conciliassero e che le persone che li hanno abitati trovino la concordia anche dopo il conflitto.
Ti prego, fai in modo che io trovi le forze per scacciare il negativo che questo passato mi porta e riscoprire il positivo che mi fa continuare a vivere serenamente.

Caro Babbo Natale, so che questa lettera non ti arriverà mai. Mi accontenterei però anche soltanto se essa arriverà al cuore di chi, attraverso le mie mani,l'ha creata.
S.

giovedì 25 novembre 2010

A qualcuno piace "cavolo"


Essere soddisfanti o non essere soddisfatti. Ultimamente, mi sono ritrovato a mettere in discussione persino la semplice liceità del porsi questo pensiero.
Come se, il semplice fatto di vivere in un contesto in cui non facciamo la fame e non soffriamo la sete ed abbiamo persino qualche agio, ci espropri del diritto all'insoddisfazione rispetto alla nostra vita.

Rivendico il diritto all'insoddisfazione. E lo faccio per un solo motivo, perché per ora (e non credo che la cosa cambierà in futuro) sono certo di avere diritto a una sola vita e diventando più grande, avviandomi verso i trent'anni, mi rendo conto che ogni momento che ho vissuto è un momento andato, che non posso più riafferrare o recuperare.
A tutti sarà capitato di avere inviato una mail e di avere notato, solo successivamente all'invio, che all'interno del messaggio ci fosse qualcosa di migliorabile, di perfettibile o persino di sbagliato. Ecco, se l'insoddisfazione o frustrazione in quel caso può essere forte, immaginiamo nel caso in cui si parli di cose della nostra vita e non di un semplice messaggio di posta elettronica.

Io mi batto, quando posso, contro la fame del mondo e contro ogni ingiustizia, contro ogni discriminazione e contro ogni diseguaglianza.
Ma non è perché c'è la fame nel mondo o perché persone muoiono di fame che i miei problemi non hanno diritto di esistenza.
Ce l'hanno perché ogni vita è unica ed irripetibile ed ogni vita ha diritto ad avere una propria dimensione e riconsiderazione.
La logica dell'accontentarsi di quello che si ha e del fatto che porsi domande rispetto al fatto di essere o meno soddisfatti sia persino un vizio borghese mi fa incazzare profondamente e la trovo ipocrita. Io sono una libera mente pensante - talvolta sragionante, per carità... - e per questo motivo mi arrogo il diritto all'insoddisfazione.
Me lo arrogo ancora a maggior ragione poiché io di tutto sono figlio meno che del vizio borghese, poiché sono nato e cresciuto in un posto dove la borghesia non l'ho nemmeno incrociata. Poiché so cos'è la sofferenza, so da racconti diretti di familiari cosa sia la fame e l'essere esposti alle intemperie dell'inverno senza vestiti adeguati, perché so cos'è la morte e la malattia.
Tuttavia, non voglio e non intendo né ora né mai rinunciare alla poetica della sofferenza e dell'insoddisfazione. Non intendo privarmi di questo aspetto anche per qualche verso melodrammatico dell'esistenza.

mercoledì 20 ottobre 2010

Buon (non) compleanno

Chi mi conosce un po', sa benissimo quanto adori "Alice nel paese delle meraviglie". L'ho letto ormai varie volte, non saprei dire quante; ci sono inumerevoli sensazioni e ricordi che mi legano a questo libro: ogni pagina mi ha regalato un piccolo mondo meraviglioso.
Il momento di massimo stupore che ho però raggiunto è stato quando per la prima volta l'ho letto in inglese. Sappiamo tutti quanto leggere un libro o guardare un film nella lingua originale in cui è stato prodotto possa essere sorprendente. E così è stato per Alice. L'inglese sembra essere stato ideato apositamente per scrivere quel libro.
Il momento in cui però sono rimasto quasi folgorato è stato quando ho scoperto che nella versione italiana del cartone animato si sono inventati una scena di sana pianta, ovvero quela del "non compleanno". Per carità, geniale la trovata, ma così distante dalla scelta originale dell'autore.
nella vesione originale infatti non vi è traccia del non compleanno. Il cappellaio matto, la lepre marzolina e Alice si ritrovano attorno a un tavolo semplicemente per un invito a prendere il tè, abitudine effettivamente molto anglosassone e poco adattabile alla realtà italiana tant'è vero che il titolo stesso del capitolo risulta quasi intraducibile: "A mad tea party".
Il non-compleanno è quindi un'intera invenzione di chi ha tradotto in italiano il libro. Qualcuno più esperto di me potrà dire se è stato lo sceneggiatore della Disney a fare quest'invenzione geniale oppure qualche abile traduttore.
Ad ogni modo in questi giorni mi è venuta in mente quella scena perché per ragioni anagrafiche mi sono ritrovato ad affrontare la fatidica data del compleanno, una ricorrenza che io trovo particolarmente odiosa negli ultimi anni.
Quest'anno però, la ricorrenza è stata davvero sorprendente. Posso quasi dire di avere festeggiato 365 non-compleanni. Se è vero, da una parte, che non sono riuscito a impedire a nessuno di farmi gli auguri, sono però stato graziato dal ricevere regali, specialmente indesiderati! Il primo anno che non ho ricevuto nessun regalo... Quasi un successo.
Intanto però diciamo che sto vivendo i miei 29 anni e questo post che si avvia verso la conclusione potrebbe fare il passo con quello precedente. Ma non vuole essere amaro, semmai autoironico. Cresce in me però una consapevolezza, ovvero, che non voglio più fare niente di cui possa pentirmi da adesso in poi nella vita.
L'anno prossimo ne avrò trenta... e da questo momento in poi sento che non voglio più sbagliare. Ho cominciato a guardare tutto da una nuova prospettiva che non è solo la prospettiva dell' "Oh gesù, passa il tempo e non sarò più giovane" - perché non me ne frega niente di invecchiare - ma del non avere rimorsi. Quindi, senza fretta, da adesso in poi cominciò a mettere in discussione tutto ciò che ho fatto finora e a valutarlo quasi scientificamente: lavoro affetti famiglia amore amicizie circostanze.
Li ho messi senza virgole perché così non dà il senso di una lista in ordine di importanza, ma di mera giustapposizione.
Finalmente concludo un post con una minaccia a me stesso.
Salvatore, buon (non) compleanno!

domenica 26 settembre 2010

Crisi

In questi giorni, i ricordi delle strade del paese tornano alla mia coscienza con cruda violenza.
Non sono ricordi visivi, sono ricordi di suoni.
Aggrappato a uno dei miei libri recuperati chissà dove, ascolto il garrire sfinente delle rondini, le urla di decine di ragazzi per strada, il cuocere del sole sull'asfalto, il rombare di qualche motorino smarmittato.
Siamo la generazione della doppia crisi.

In quegli anni un negozietto era aperto ad ogni angolo delle strade, ero un fanciullo e potevo andare ovunque mi pareva, a patto che quell' "ovunque" fosse situato nel giro di qualche centinaio di metri da casa. Non mancava nulla, c'era davvero di tutto: dai piccoli alimentari alle botteghe degli artigiani.
Il rumore dello sferragliare dell'officina di mio padre, il saldatore del fabbro, il suono delle stoviglie che proveniva dagli appartamenti allo scoccare del mezzogiorno.
Eravamo tanti e giovani, gli appartamenti erano tutti pieni. Le case erano abitate, quasi tutte.
Poi sono diventato adolescente, l'età della confusione, quella in cui ero freddamente cosciente di non capire nulla. E invece, crescevo e capivo sempre di più. Ma la presa di coscienza è stata cruda e rapida.
Mentre crescevo e cominciavo a capire quali fossero le mie vie di fuga, quale fosse il mio destino, le mie aspettative, tutto attorno a me si avviava verso una triste descrescita e decadenza. Era arrivata la crisi. Ero troppo adolescente per capire chi mi avesse imposto quella crisi, da dove venisse e, soprattutto, perché dovessi pagarne io le conseguenze.
I rumori dell'adolescenza svanivano assieme alle mie speranze di diventare grande, di crescere, di fare progresso, di riscattare la povertà in cui erano cresciuti i miei genitori.
Le botteghe pian piano chiudevano. Il fabbro quasi non saldava più. Gli alimentari avevano tirato giù le serrande; per sempre. La signora di mezza età che lo gestiva non faceva altro che cucinare sughi in casa e fare le pulizie. Il vecchio registratore di cassa era rimasto intrappolato in una polverosa busta di cellophane.
Ma la cosa peggiore fu quando vidi le prime valigie. Quelli più grandi di me non c'erano più per strada. Finito il liceo, cominciavano a pronunciare, con sguardo rassegnato e affascinato al contempo, i nomi delle grandi città: Milano, Roma, Napoli... Andavano a studiare, per non fare più ritorno.
Sono cresciuto con la coscienza che tutto attorno a me si stesse svuotando: le case, le scuole, le strade. I figli dei vicini di casa ritornavano per le feste a riempire il corso del paese con i propri racconti di piccole e grandi emigrazioni.
Quella crisi è stata la prima a segnare la mia vita, come quella di tanti altri che per costruire il proprio futuro hanno dovuto caricarsi sulle spalle uno zaino pieno di rimorsi di coscienza.
Presto sarebbe toccato a me.

Quei ricordi si sono sedimentati e, sicuramente non per caso, sono riaffiorati adesso.
Ho quasi trent'anni. A quest'età c'è la voglia di lavorare, di costruirsi un futuro, una famiglia, organizzandosi ognuno come si può...
E invece anche qua, nella grande città, anche in questo momento - in cui dovrei guardare fiducioso al futuro - non ho assistito altro che alla fuga di persone che sono poi scomparse in qualche aereo per non fare più ritorno. Il mondo è di nuovo in crisi, ancora una volta, brutto scherzo del destino, quando le mie aspettative erano ai massimi.
E invece, ancora valigie sugli usci delle porte, ancora treni, case che si svuotano, ancora aerei e ancora la solita domanda: perché paghiamo sempre noi? La risposta ha il peso emotivo pari a quello di un camion di catrame bollente che ti viene versato addosso, mentre guardi l'azzurro del cielo.
Oggi però ho una coscienza del "fuori da me" più ampia di quella del sempliciotto adolescente. So che paghiamo un prezzo che non dovremmo pagare noi. Che noi siamo solo le vittime di un sistema che ci considera piccole macchine produttrici di reddito, di PIL e che se per qualche ragione diventiamo improduttivi, siamo pronti ad essere lasciati indietro alle nostre precarie miserie.
E nel contempo assistiamo alle squallide vicende di un paese in cui la corruzione risiede nei palazzi delle istituzioni e convive con le associazioni di mafiosi, in cui lo squallore ha preso il posto della dignità e del buon costume, in cui i diritti di molti soccombono a favore dei privilegi di pochi, in cui i giovani che faticosamente si sono costruiti una propria - seppur precaria, come dev'essere - identità, se la vedono demolire a colpi d'ascia da chi amministra con scelleratezza quel che rimane della cosa pubblica.
Una nuova crisi mi avvolge. Questa però è più violenta, perché non è fatta solo di soldi che non ci sono più, ma di valori che vengono sotituiti da disvalori e da turpità.
Altroché incoscienza adolescenziale. Adesso la coscienza di persona adulta che si vede deprivare passo passo della propria dignità grida con forza una rabbia insopprimibile. Mentre tutt'attorno, tutto tace, la coscienza civile è intorpidita e un silenzio assordante stordisce, il mio furore dell'essere per la seconda volta nella vita vittima di un'altra crisi vorrebbe gridare fino a finire il fiato e a seccare la gola.

mercoledì 1 settembre 2010

A qualche giorno dal silenzio

Ho un disperato bisogno di malinconia. Mi sento solo in un mondo di gente che sembra conoscersi.
Le prime avvisaglie dell'autunno mi avviluppano in un silenzio interiore che mi stordisce. Le vacanze sono solo un vuoto (lo dice la parola stessa, ma abbiamo dimenticato il significato delle parole; un vuoto che mi separa dal bisogno di confondermi nel pieno totalizzante delle facce sconosciute che mi ronzano attorno mentre percorro le strade.
Mi costringerò al contatto umano per qualche tempo e poi scomparirò. Sono già stanco di chi mi dice come si deve fare, di chi mi implora di fare, di chi mi chiede di non fare, di chi non dice, di chi fa per non lasciare fare agli altri.
Ecco, è ora di prendere una pausa da tutto ciò.
Eppure il nuovo anno è appena cominciato. Capodanno non è il primo di gennaio. Capodanno è oggi, almeno per me.
In realtà, quest'anno non mi sento di volere accogliere. Sento una forte e irreprimibile necessità di eliminare ancora, di repellere ed espellere.
Ancora un po' di giorni di contatto umano forzato e poi mi sentirò libero di reagire.
Si possono percorrere strade che non si conoscono? Anche senza una guida. L'importante non è ricercarsi, è smarrire il senso del tempo e delle cose. Sembra ormai l'unico mezzo per sorvolare ad occhi chiusi la mancanza di senso del reale.

Proprio come la panchina del pratone dell'università che nessuno ha mai pensato di rimuovere. La gente non potrebbe mai immaginare che una panchina davanti a un prato possa rappresentare il senso di smarrimento profondo e di disperazione di un essere umano. Se mai fossi capace di dipingere e reinterpretare L'urlo di Munch, io disegnerei una panchina.
"May the big city bury you alive."
Non so davvero se possa rappresentare un grande risultato il fatto che sia stato io a seppelire la città e ad inghiottirla nel mio ventre. Ora mi si sta rivoltando contro e cerca di scaraventarmisi addosso con veemenza.
La mia mente va agli autunni piovosi di quelle giornate piene di speranze. Vorrei tornare anche solo per un attimo a emozionarmi fra i polverosi corridoi dell'università a riscoprire giornate vissute a metà. Guardo invece i ricordi passare come un passeggero annoiato che dopo ore di treno osserva perso il paesaggio fuori dai finestrini bagnati da una fredda pioggia che con violenza colpisce un treno. Vorrei per un attimo riuscire a ripercorrere quei momenti, perché è stato in uno di quei giorni che mi è sfuggito il senso della musica che accompagna le mie giornata. E la melodia adeso mi suona stonata; peggio, insensata.
"Please help me find the pause button."
A qualche giorno dal silenzio, stringo forte i denti e mi ripeto che sprofonderò nel nulla delle mie giornate e ripeterò a me stesso che se credevo di aver paura, avevo torto. Mi sono preso solo una piccola vacanza per il mio cuore. Respiro l'aria che mi spinge avanti.
A qualche giorno dal silenzio tenterò di convincermi che se credevo che fosse tutto finito, avevo torto.

Cercavo le radici misteriose di questa città e mi sono detto "La verità è nascosta in quell'attimo in cui pensi di capire che la vita ti è passata davanti proprio con il soffio d'aria che non hai respirato. Quindi adesso respira."
La risposta l'ho trovata solo qualche minuto più tardi.
"Vorrei trovare qualcuno a cui potere rivelare quegli attimi tanto intimi da non essere in grado di rivelare nemmeno a me stesso. - -- -- Sono costretto quindi alla solitudine più assoluta."
A qualche giorno dal silenzio tutto ciò è un fardello troppo pesante da sopportare.

martedì 31 agosto 2010

CS>CZ = fuochi fatui

“All the lovers
that have gone before,
they don't compare to you.
Don't be running,
just give me a little bit more:
they don't compare.
All the lovers…”


La prossima volta che ti indico un fuoco fatuo che vedo fluttuare in aria non devi sobbalzare. Tu guidi e io osservo il cielo alla ricerca delle stelle cadenti. Tu non mi credi, ma io ti dico che da questa parte del mondo se ne vedono moltissime, davvero.
E infatti, le hai viste anche tu. Un giorno partirò per una lunga spedizione sulle montagne, proprio quelle montagne dove ad Agosto fa freddo la sera. Anche a questo non credevi, invece, i brividi hanno percorso la tua pelle mentre con me guardavi il cielo alla ricerca della stella cadente che non credevi di poter vedere. Un giorno, partirò per il ricongiungimento con gli spiriti che abitano le montagne della Sila. Da bambino, io ci parlavo sempre e anche l’altra volta, tu non te ne sei accorto, ma proprio mentre camminavo con te nel bosco, loro mi sorridevano da dietro le spesse cortecce dei pini.
E alla fine di questa spedizione sono certo che troverò quel meteorite che ho visto cadere milioni di anni fa. Quando io, quando tu non eravamo nulla.
La sera vicino alla costa, quando i monti sono un lontano ricordo, le onde riportano in aria e inalano nei nostri nasi sospiri di perdute civiltà. Non le hai viste tornare alla ribalta dietro gli spruzzi d’acqua che colpivano le mura del castello? Quella era una musica tribale, solo che oggi non lo capiscono. Una volta la suonavano con un tamburello fatto di pelle animale e con un pezzo di bambù con qualche foro. Ma loro non lo sanno.
E’ per questo che se quella sera abbiamo guardato in alto abbiamo visto quell’oggetto arancione, volare.
Ormai sappiamo cosa sono i satelliti, riusciamo a riconoscerli quando li vediamo compiere in tutta fretta le loro orbite nell’atmosfera. Anche gli aerei sappiamo come son fatti. Le abbiamo viste spesso queste grosse api rumorose decollare in cielo.
Chissà cos’era. Forse il vago ricordo di qualcuno che passeggiava su Ponte Carlo.

mercoledì 4 agosto 2010

Il blog in vacanza


Mi prendo una vacanza. Non sarà una "tsuru tsuru" vacanza quest'anno. Le esperienze sono uniche e irripetibili.
Questo è un anno diverso, non ci sono più alcuni attori e alcune macchiette dell'anno scorso. Alcuni sono rimasti, altri sono felicemente andati via e altri hanno fatto il loro ingresso sul palcoscenico.
Sono delle nuove vacanze, che hanno il sapore di una persona che ha una vita diversa e meno quello del riscatto e della voglia di ricominciare. Hanno piuttosto il valore del riconoscere il nuovo stato delle cose.
Un nuovo status quo di sentimenti mi accompagnerà in questo periodo di pausa in cui metterò al centro l'insostenibile leggerezza del non-essere.
Sarà un buon esercizio, mi permetterà forse di fare pace con una serie di insicurezze e sedimentare qualche granello di fiducia in chi mi circonda.

L'altro giorno su un vuoto autobus agostano osservavo fuori. C'era un cartello che diceva "20 rose, 5 euro". Il valore della rosa.
Se le avessi comprate quelle rose e poi regalate, sarebbero rimaste in casa mia.
Chi le avrebbe ricevute, non avrebbe potuto portarle a casa sua. Rifletterò sul valore di 5 euro o sul valore delle rose?
Comincerò a pormi la domanda, per capire se ponendomi la domanda, potrò poi arrivare a una risposta. Intanto mi sono comprato un nuovo libro per suonare il flauto. Regalerò delle note musicali e le libererò nell'aria della costa.
Al mattino andrò a raccoglierle sulla spiaggia. Il suono si propaga, non scompare. Viene emesso e poi contamina l'ambiente circostante per arrivare lontano, molto lontano. Siamo noi incapaci di sentirlo, non è lui che si estingue.
Suonerò qualcosa e farò regali immateriali, premuroso del non lasciare traccia.
La mia agendina rossa gestirà e fisserà qualche ricordo, poi farò ritorno in città e vedrò di ridare vita a quelle cose.
Buone vacanze.

domenica 1 agosto 2010

Tartarughe infrante


Qualcuno sostiene che siamo vittime del caso.
Io mi limito semplicemente a non sostenere. Raccolgo, elaboro, languisco, accordo e disunisco.

E' tarda notte. Non dormo. Mi capita spesso durante queste sere estive e mi sveglio di soprassalto come se dei ladri stessero rubandomi gli oggetti più preziosi che non posseggo. Faccio sogni strani e mi sveglio con la gola riarsa per le immaginarie corse che fuggo durante le mie faticose notti estive.
Non fa più molto caldo. Di notte, se dimentico la finestra aperta, più sono costretto a richiuderla perché un freddo pungente trapana la pelle.
Una di queste notti sono stato svegliato da un sogno particolarmente molesto. Il freddo che sentivo deve avermi tirato un brutto scherzo. Mi sono alzato e nel dormiveglia mi sono messo a chiudere le finestre della camera. Mentre tiravo le tende, ho sentito un secco tonfo.

A volte ci sono regali che nell'involucro contengono sorprese dolciamare. La gioia del gesto di riceverli non compensa però l'amaro del contesto in cui quei regali vengono fatti. Proprio come quella tartaruga.
Non sapevo che fare: un regalo non si può eliminare, lo si può tutt'al più nascondere nel recesso di qualche cassetto per fare in modo che il tempo ne cancelli le tracce magiche che esso conserva. Proprio come una mummia ritrovata ai nostri tempi. Ma le mummie conservano quell'aura magica comunque, anche a distanza di migliaia di anni, mi sono detto. Quindi ho deciso di tenere la tartaruga bene in vista sperando nell'effetto opposto. La realtà sbattuta in faccia tutti i giorni fa meno male che se ci si espone violentemente una volta tanto.

Ho tirato la tenda e la tartaruga si è infranta.

Qualche giorno dopo, vengo a sapere che un lutto si è consumato proprio quella notte. Scompaiono le persone, come le serate estive durante le prime giornate di settembre. Ultime calde esalazioni nel freddo contesto dell'aria tardoestiva.
Ci sono eventi che annullano le distanze. Eventi che acccordano e disuniscono tracce di immobilismo irreale. Lasciano un solco nel tempo che poi noi dobbiamo faticosamente ricolmare.
Una tartaruga infranta non vale l'esalazione di una vita, non vale il ricevere una notizia sgradita da una persona sgradita.
Preferivo mantenere vivo il ricordo di una mia ferita profonda che dovere sopportare il dolore di una vita infranta.

Ora non so che fare. A che serve incollare i pezzi del passato? Per mantenere le scomposte spoglie di un tempo andato?
Io sono abituato a buttare via tutto.

venerdì 23 luglio 2010

Il secondo assalto a un KFC


(liberamente ispirato a M. Haruki)

Quando ci ripenso, credo di avere davvero commesso un errore abbastanza grave. Ma ci sono delle cose che accadono senza il nostro controllo e non è possibile dire se è giusto o no, accadono e basta. Però, se quella sera avessi taciuto, forse sarebbe stato meglio.
In quei giorni faceva davvero caldo. Nell’appartamento non circolava un filo d’aria e l’afa era davvero opprimente. Nonostante l’appartamento fosse rimasto al buio tutto il giorno, anche dentro faceva un caldo insopportabile e nemmeno stare completamente nudi aiutava.
Dall’esterno provenivano i rumori soliti, tipici di un appartamento della periferia romana. Qualcuno che a tarda sera cercava ristoro nell’acqua fredda dal caldo intollerabile lavando i piatti, altri che ancora credevano che distrarsi guardando la televisione potesse essere un metodo utile per dimenticare il caldo e qualcuno che invece chiacchierava al cellulare affacciato alla finestra. Tutto ciò era relativamente inutile, perché il caldo continuava ad imperversare anche durante la notte.
S. quella sera aveva deciso di rimanere a dormire da me, perché il mio appartamento, nonostante tutto, era relativamente fresco rispetto a molti altri e sicuramente al suo. Inoltre, si era fatto davvero tardi.
Quella sera eravamo andati a bere una birra all’isola pedonale. C’era un’atmosfera veramente gioiosa per strada, gente di tutti i tipi camminava chiacchierando o si fermava ai lati della strada stravaccata sui marciapiedi o persino sull’asfalto a fumare sigarette o bere bevande di ogni sorta. Il sole aveva abbandonato la scena e il buio si stava impadronendo lentamente delle strade e copriva i vestiti dei passanti. Stavamo parlando delle nostre vite passate, ovvero di quel lasso di tempo che intercorre fra una conoscenza e un altro. Quel periodo di tempo che intercorre fra un modo e un altro, quando per una strana congiunzione poi due vite si intersecano e cominciano a produrre un pezzo di passato. Il momento in cui si crea il passato.
Di ritorno a casa mi venne in mente che non avevo davvero nulla da mangiare nel frigo, il vuoto assoluto. C’era di certo qualcosa da bere, una lattina di coca cola. Ma nessun tipo di cibo, forse un limone e un uovo. Fummo presi da una fame inspiegabile, una fame fuori dalla norma. Immediatamente pensai che era stato per colpa della birra. Mai bere una birra a stomaco vuoto, poiché come una malefica pozione, oltre a provocare un leggero senso di stordimento, crea una sensazione di nulla cosmico nello stomaco, apre le cataratte della fame repressa in tutto l’arco della vita.
Fatto stava che davvero non c’era nulla da mangiare e i negozi erano tutti chiusi da un pezzo. Era troppo tardi persino per trovare aperti quei posti tipo minimarket gestiti dagli immigrati del quartiere. Fu in quel momento che S. cominciò a raccontarmi, fra i vari aneddoti di quel suo passato, un episodio davvero curioso.
“Ero con degli amici ad A. e quel giorno eravamo stati tutto il giorno in giro per la città. Era uno di quei viaggi che si fanno da studenti, quando si hanno moltissime energie e pochi soldi in tasca. Come dire, i soldi non bastano mai per dare vita a tutte le energie che si hanno in magazzino.”
“Posso immaginare – aggiunsi io – siamo stati tutti adolescenti in un certo momento della nostra vita. E poi A. è proprio una città che sembra essere stata costruita apposta per i bisogni dei giovani: c’è tutto quello che un giovane potrebbe volere da una città. Incredibile!”
“Sì. Proprio così. Solo che eravamo alla fine della vacanza e ci restavano a mala pena i soldi per comprare il biglietto per tornare in aeroporto e alle 2 di notte dopo una giornata passata in giro eravamo veramente affamati. Non sapevamo cosa fare, proprio come adesso. Uno dei nostri amici disse di avere ancora dieci euro in tasca e che quindi avrebbe potuto comprare un panino con pollo panato. Alla notizia sgranammo tutti gli occhi, anche se ci dicemmo che certo soltanto un panino non sarebbe bastato per sfamare cinque persone con quella fame. Ad ogni modo, ci avviamo verso l’ostello dove eravamo alloggiati e strada facendo incontrammo un fast food. Entrammo e comprammo un panino. Il posto era invaso dal tipico profumo dei fast food, che quando si è sazi provoca il voltastomaco, mentre quando si è affamati, accende una sorta di fame chimica che non ti fa smettere di mangiare e non colma la sensazione di avere lo stomaco vuoto nemmeno dopo un’abbuffata. Il nostro amico riccone andò alla cassa e noi altri ci sedemmo al primo tavolo libero. Il locale era quasi vuoto, ancora una mezz’ora avrebbero chiuso. C’erano solo altri due ragazzi che avevano già svuotato i vassoi e che infatti dopo qualche minuto si dileguarono Tutto sommato c’era andata bene a trovare il posto aperto. Erano rimasti solo tre dipendenti nel negozio e i poveracci avevano delle facce stanchissime. Il nostro amico prese la banconota dal portafoglio, aggiustò la cifra con qualche spicciolo e prese in mano il panino che aveva ricevuto dal dipendente del fast food. Con aria molto mesta si avvicinò al tavolo. Quando scartò il panino fummo avvolti da un profumo indicibile e alcuni di noi avevano l’acquolina che trasudava dai lati della bocca.”
“Certo che esperienze assurde che si fanno da ragazzi!”, esclamai.
“Aspetta, il bello deve ancora arrivare. Il panino non poteva essere suddiviso in cinque parti perché in mezzo aveva questa cotoletta croccantissima impanata e non avevamo un coltello, né tanto meno ptevamo chiedere che ce lo tagliassero in cinque parti. Avrebbero pensato che eravamo dei poveracci. Quindi decidemmo di dare un morso ciascuno. Io mangiai per penultimo e quindi mi rimase, come era immaginabile, il pezzo più piccolo.”
Per qualche motivo quella scena mi fece venire in mente la scena dei sopravvissuti a un incidente aereo sulle Ande che per la fame mangiarono la carne dei cadaveri dei passeggeri morti. Ma non la rievocai, era troppo trucida.
“Il poveraccio che mangiò per ultimo aveva un pezzo di lattuga, uno sbuffo di maionese e un micro pezzo di pollo. Quando il panino fu finito, non ci rimase che guardarci sconsolati. La fame era tutt’altro che spenta e gli stomachi gorgogliavano rumorosamente, tant’è che nonostante la musica di sottofondo, ogni tanto si sentivano rumori assurdi provenire dai nostri stomaci, come delle sorgenti morenti nel fondo di un pozzo. Uno di noi pensò di spendere gli ultimi soldi e comprare un altro panino, ma gli facemmo notare che là tutto si poteva fare meno che fare i portoghesi sui mezzi pubblici e che quindi gli conveniva non spendere gli ultimi spiccioli se l’indomani voleva arrivare in aeroporto e ripartire.”
Io non potei fare a meno di pensare che il nostro problema quella sera era tutto, meno che i soldi. Avevamo entrambi soldi sufficienti per riempire un carrello della spesa. Il problema era trovare la materia prima e un posto dove pagarla!
“Ad ogni modo, decidemmo che sarebbe stato opportuno lasciare stare. Ad un certo punto stavamo quasi per alzarci, quando uno dei nostri cominciò a parlare a bassa voce e ci disse: ‘Io a questa fame non resisto. Rubiamo qualche panino!’. Io rimasi sbigottito all’affermazione. Non avevo mai rubato nemmeno una mela marcia da un albero in vita mia, figuriamoci svaligiare un fast food. Mentre io e un altro della ciurma rimanemmo sbigottiti e contrariati, gli altri due invece fecero un sorriso malizioso, come a fare percepire che l’idea non fosse totalmente malsana e che ci potevano stare. Un altro chiese: ‘Ma come facciamo?’ L’altro, prontamente rispose: ‘Fingiamo un malore. Tu fai finta di avere uno svenimento o che ti è preso un accidenti mentre vai in bagno. Così i dipendenti verranno tutti verso di te, vedendoti cadere a terra, si allontaneranno sufficientemente dal balcone e si distrarranno. Noi andiamo verso il cibo e riempiamo gli zaini di panini. Questi tre cretini non se ne accorgeranno.’”
“Non mi dire che l’avete fatto davvero!”, interruppi io.
“Certo che sì. Io ero il palo, nel senso che dovevo correre verso il malcapitato che fingeva il malore e gonfiare la vicenda urlando: ‘E’ morto! E’ morto!’ e cose del genere. Insomma la scenetta venne benissimo… Salvo che uno dei tre dipendenti a un certo punto si accorse che gli altri tre dei nostri non erano accorsi con me e, insospettito, si girò un attimo verso il bancone, accorgendosi della malefatta.”
“Scommetto che siete finiti in una gattabuia.”, dissi costernato.
“Proprio no! Il ragazzo che aveva finto il malore si alzò di scatto, mi strattonò, diede un pugno a uno dei tre e nella concitazione del momento, schizzammo tutti fuori dal fast food veloci come la luce. Non ci inseguì nemmeno la polizia, solo uno dei tre provò a inseguirci per un pezzo in strada, ma rinunciò subito. E poi, perché fare tutte quelle storie, quei tre deficienti sapevano che quei panini sarebbero andati buttati di lì a breve! Era ora di chiusura!”
“Non ci posso credere! Riesci anche a giustificare un furto!”, esclamai.
“Non lo giustifico, lo motivo! Ad ogni modo i ladruncoli dei miei amici avevano preso ben tredici panini, varie cosce di pollo panate e una serie di salse. Una volta all’ostello facemmo un banchetto meraviglioso!”
La storia mi aveva lasciato interdetto e mi aveva persino distratto dalla fame terrificante che ci aveva assaliti. Da una parte cominciavo ad essere solidale con i ladri di panini, cominciavo a capire cosa significasse. S. era stato molto onesto nel confessare questo misfatto. Da uno come lui, tutto mi sarei aspettato, meno che avesse collaborato a un furto… Ad ogni modo, mi era tutto più chiaro adesso: alla fame non si comanda. Mentre io ero assorto nelle mie elucubrazioni su quanto fosse giusto compiere un crimine finalizzato alla soddisfazione di un bene materiale fondamentale e indispensabile per la sopravvivenza come quello di mangiare, vidi che S. fece una strana faccia.
“Spero – disse - che tu non pensi che io sia un criminale.”
“Ma figurati… tutt’al più un piccolo ladro!” dissi io.
“No, è che in realtà questa situazione mi fa pensare a quella sera. Perché eravamo tutti così affamati da arrivare persino a compiere un gestaccio del genere? Me lo sono sempre chiesto. Noi eravamo i tipici bravi ragazzi poco più che diciottenni in viaggio post-laurea… i nostri genitori ci avevano lasciati partire a soli, proprio perché si fidavano di noi ciecamente e sapevano che non avremmo mai compiuto un atto di questo genere.”
“E invece!” lo interruppi.
“Sai, credo che questa sia una maledizione.”
“Cosa??!” esclamai io, incredulo.
“Sì, questa è una maledizione. E sono convinto che per chiudere il cerchio che si è aperto quella sera, devo svaligiare un altro KFC.” disse con fare serio.
“Ma….”
Non mi diede nemmeno il tempo di parlare che disse: “Io sono convinto che le maledizioni vanno chiuse, perché altrimenti continuano a ritornare ciclicamente nella vita. E questa sensazione di fame che ci ha presi adesso è proprio la stessa di quella sera. Non so spiegartelo meglio, ma è così! Devi fidarti!”
Cominciai a pensare che la birra a stomaco vuoto doveva avergli fatto proprio male. Doveva essere vittima di qualche allucinazione.
“Ad ogni modo, dissi, qui nella nostra città non c’è un KFC. Il più vicino si trova oltre confine! Quindi è meglio andare a dormire e metterci una pietra sopra!”
Vidi la sua faccia contrariata. Si alzò di scatto e mi disse: “Dammi qualche minuto”, andò nel mio studio e si assentò per una ventina di minuti. Quando tornò aveva un foglio in mano e con fare pomposo e con un sorriso da coccodrillo che sta azzannando voracemente un malcapitato gnu affacciatosi su una pozza per dissetarsi, mi disse: “Prepara una valigia. Domani mattina partiamo per V. Tanto abbiamo il fine settimana libero. Torniamo in serata!”
“Cosa??? – esclamai io – Ma ti ha dato di volta il cervello? Non ci posso credere. Ma a questo punto fra qualche ora apriva un qualsiasi bar e avremmo potuto mangiare quanti cornetti volevamo!”
“Ma cosa dici? Noi dobbiamo andare ad assaltare un KFC. Il volo più economico verso una destinazione non troppo lontana dove ci sono dei KFC era questo, quindi adesso dobbiamo andare.”
Dopo una brevissima discussione, mi resi conto che oramai il dado era tratto. Cosa avrei potuto fare? Rassegnato presi una valigia, la riempii con pochissime cose essenziali, giusto per una scampagnata, e la richiusi. Intanto lui aveva già prenotato un taxi, perché il volo era davvero all’alba. Era uno di quei voli per l’est Europa che le compagnie aeree programmano a orari improponibili, ma svendono a prezzi bassissimi. In un batter d’occhio ci ritrovammo a V. In aeroporto mi disse di fermarci perché doveva spiegarmi quale fosse il KFC migliore per compiere un assalto.
Aveva studiato ogni minimo dettaglio. Io ero a dir poco incredulo. Essendo estate, la città sarebbe stata di per sé semi deserta. Quindi disse che il luogo più appropriato, non potendo farci aiutare dal buio poiché il volo di ritorno era verso le quattro del pomeriggio, era il KFC in un quartiere dove c’erano solo uffici e che in quel periodo sarebbe stato quindi deserto.
Al solo pensiero di dovere compiere un’azione criminosa, mi veniva una tachicardia incontrollabile, mentre lui sembrava tranquillissimo, anzi aveva sul viso l’espressione tipica di chi stesse per soddisfare uno di quegli istinti primordiali da sempre repressi. Avrei avuto in quel momento condividere anche un solo pizzico di quella sensazione. Quando lo vidi prendere il suo marsupio con fare davvero astuto, mi prese un colpo.
Tirò fuori un paio di bombolette, sembrava del deodorante. “Questo è spray al peperoncino. Lo porto con me quando vado a recuperare la macchina in stazione quando esco da lavoro tardi. Il parcheggio dove la lascio è davvero sinistro e quindi avere un po’ di questo mi fa stare più tranquillo. Hanno scippato un sacco di gente in quel posto.” La mia sensazione di incredulità aumentava. Avevo davanti un criminal mind e non me n’ero mai accorto in tanti mesi di frequentazione. Cominciavo a pensare che ci saremmo messi seriamente nei guai e che potevo rinunciare definitivamente alla mia reputazione.
Intanto le ore erano passate, quindi proposi di mangiare qualcosa, perché il mio cervello cominciava a sragionare, ma lui si oppose con veemenza, dicendo che fra qualche ora avremmo avuto tutti i panini al pollo e le ali di pollo panate e fritte che avremmo voluto. All’idea, il cervello si rischiarò, anche se ogni volta che intravvedevo dall’autobus che ci portava in centro un supermercato o un ristorante, il mio stomaco faceva un sobbalzo. Diceva che per chiudere il cerchio della maledizione dovevamo per forza rimanere digiuni e mangiare i panini di KFC.
Arrivammo a destinazione. Effettivamente aveva ragione. Non c’era anima viva. Solo qualche passante solitario e raro camminava lungo i muri degli edifici per ripararsi dal sole rovente. Le aveva studiate davvero tutte. Immediatamente accanto all’uscita del locale c’era anche l’ingresso della metropolitana, dove saremmo dovuti scappare dopo l’assalto. Ero esterrefatto dalla minuziosità del piano, non so proprio come avesse fatto a studiare tutti quei dettagli.
Entrammo nel posto. Al bancone c’era una ragazza bionda un po’ paffutella e non troppo alta. Un altro ragazzo esile e biondo anch’egli friggeva la roba nel retro e un altro ragazzo stava facendo pulizia ai tavoli. Si attardò a guardare il menù con lo sguardo vago del turista che non capisce la lingua e cerca di capire le cose attraverso le immagini. Attese che il ragazzo che puliva i tavoli andasse sul retro e si guardò con aria circospetta per vedere la clientela. Non erano nemmeno le 11 e mezza e l’unico cliente era un signore gracile, così magro da sembrare un fantasma che sembrava mezzo addormentato dietro lo schermo di un PC portatile. Mi disse di rimanere a fianco alla porta e di prepararsi alla fuga una volta finito il colpo. Io non avrei dovuto fare nulla, solo rimanere vicino alla porta e usare lo spray al peperoncino solo in caso ce ne fosse stato bisogno, ma mi rassicurò dicendomi che non ce ne sarebbe stato bisogno. Parlava anche a voce altissima, con una foga incredibile, rassicurato dal fatto che i tre malcapitati non avrebbero capito una parola.
Si avvicinò al bancone e ordinò 20 panini con cotoletta di pollo, 4 cesti maxi e 8 ali di pollo. Chiese due coca cola e disse che era tutto a portar via. Non so come, ma in inglese riuscì a spiegare che voleva pagare la coca cola con uno scontrino separato… Io pensavo che oramai eravamo a un passo dalla follia.
Fatto sta che pagò la coca cola e conservò scrupolosamente lo scontrino, mettendo via il portafogli e tenendo una mano nel marsupio. Io atterrito guardavo la scena dalla porta e ogni volta – capitò solo due volte – che vedevo qualcun avvicinarsi alla porta sobbalzavo. Ma le uniche due persone tirarono dritto senza degnare di uno sguardo il locale. Passò un tempo interminabile e quando il bustone pieno delle cibaglie fu appoggiato sul tavolo tirò fuori lo spray e ne spruzzò una quantità indescrivibile addosso alla povera malcapitata che cominciò ad urlare in modo tremendo. L’uomo che era seduto al tavolo sobbalzò e capito che si trattava di una rapina si alzò dal tavolo con una tale veemenza che quando fece per correre via inciampò nel cavo del pc, che finì a terra con un tonfo micidiale e si diresse correndo verso la porta. Io, preso dal panico, tirai fuori lo spray a mia volta e lo minaccia senza avere nemmeno il tempo di spruzzare perché l’uomo si diresse verso il bagno correndo come un pazzo e lo sentimmo chiudersi dentro.
Quando gli altri due ragazzi accorsero S. mi fece cenno di avvicinarmi al bancone e di prendere le altre due buste. Mentre facevo questo la poveretta era rovinata a terra inciampando e urlava come una forsennata. Quando gli altri due si avvicinarono, uno corse verso di me, ma io fui pronto a dargli il ben servito con un’altra buona quantità di spray. Il poveraccio si diresse verso il bagno e sentii uno scroscio d’acqua. L’altro invece, avvicinatosi al bancone cercò di scavalcarlo, ma S. impugnò lo spray e il malcapitato se lo trovò a qualche centimetro dalla punta del naso. Al che il ragazzo si immobilizzò e S. con tono molto pacato gli disse:
“Dammi tre barattoli di salsa. Voglio pagare.”
Il povero fece una faccia rassegnata, aveva ormai capito di trovarsi di fronte a due matti. Prese la salsa, prendendo a calci nella foga la poveraccia che intanto si dibatteva sul pavimento e prese le monete che S. gli porgeva. S. gli chiese lo scontrino. S. prese lo scontrino e lo mise in tasca. Io rimasi sbigottito.
Mi fece un cenno di ok con il pollice in alto. Presi le buste e fuggimmo via lasciando i poveri malcapitati alla loro sorte.
In un battibaleno fummo nella metropolitana e il treno ci portò verso la stazione dell’aeroporto. Io ero convinto che la polizia a un certo punto ci avrebbe individuati e sbattuti in galera. Lui era convinto che non sarebbe successo assolutamente nulla. Con il cuore in gola, mentre il treno percorreva le buie gallerie sotterranee venivo invaso da ondate di odore del cibo nei due bustoni. L’acquolina in bocca e il cuore in gola.
Arrivati in aeroporto, S. mi accompagnò verso un’area poco fuori dal terminal, abbastanza degradata e solitaria. Faceva un caldo micidiale, ma eravamo all’ombra. La coca cola nella fuga si era versata per metà e il sacchetto di carta cominciava a lacerarsi. Il resto era tutto perfettamente intatto, anche se le confezioni un po’ ammaccate. Bivaccammo su quel marciapiede e mangiammo con voracità tutto. Spolpammo le alette di pollo mangiando fino all’ultima briciola di impanatura. Quando rimase l’ultimo panino prese la salsa rimasta e la versò sopra per poi azzannarlo fino all’ultimo boccone.
Per il momento la fame era stata placata. Era come se avessimo messo un enorme tappo sul Vesuvio. La falla era stata colmata. I nostri sguardi assomigliavano a quelli degli ingegneri della British Petroleum quando otturarono la falla della piattaforma petrolifera esplosa nel Golfo del Messico.
Al che, ci guardammo l'un l'altro per un attimo con sguardo perso. “Perché hai voluto pagare la salsa?”, chiesi.
“Noi dovevamo assaltare il locale solo per il cibo, non per le bevande o altro.”
Cosa avrei potuto controbattere? Presi la risposta così come m'era stata data e la incamerai nel cervello, proprio come quando un’onda ti colpisce all’improvviso mentre tu, con il cervello altrove, stai guardando il mare da un parapetto.
Quando salimmo in aereo e la hostess gli chiese la carta d’imbarco per i controlli, lui tirò fuori lo scontrino della salsa e, nonostante le proteste della hostess, con aria tremendamente soddisfatta per il trofeo esibito, tirò diritto e andò a sedersi al suo posto.
Rassegnato lo seguii.

mercoledì 23 giugno 2010

Lo zerbino scomparso

Sono tornato a casa dopo una di queste lunghe giornate di lavoro che caratterizzano il periodo. Appena ho messo piede nel portone, un po' zuppo, vista la pioggia consistente che in questi giorni sta bagnando l'estate, mi sono accorto che lo zerbino davanti al portone dell'appartamento era scomparso.
Bella storia, mi dico... con un leggero rodimento in corpo accompagnato da uno stranimento.
Abitando a piano terra ed essendoci un certo numero di persone che vanno e vengono, ho pensato ad un furtarello. Ma poi mi sono detto: non è possibile! Non ci posso credere che qualcuno abbia potuto rubare uno zerbino!
La cosa, ad essere onesto un po' mi ha turbato.

Due giorni prima riflettevo a questo strano quartiere incastrato fra la "fricchettonaggine" del Pigneto e la popolanità di Torpignattara. Ho ricercato in giro sul web e mi sono accorto che abbiamo persino un sito web: www.pigneto.it! Ho ricercato la storia del nome del quartiere e mi è stato spiegato che deriva da una costruzione romana, una cupola che ha all'interno delle pignatte per alleggerire il peso della volta. Sono andato al parco dove si trova questo Mausoleo di Santa Elena e l'ho visto. Le pignatte ci sono davvero nella cupola, ma evidentemente non sono servite perché il tetto è crollato lo stesso!
Poi sono tornato a casa. Sono cominciati i mondiali e il quartiere si è colorato di bandiere. Non solo dell'Italia: a proposito di dialogo interculturale.
Comunque vada il mondiale a Torpignattara lo abbiamo vinto!
Seduto nel salotto, l'altro giorno ho ascoltato questa conversazione:
"Complimenti!" grida il vicino.
"Che cosa?" grida la vicina affacciata alla finestra.
"Per la partita! Avete vinto."
Non si riferiva all'Italia evidentemente, che finora non ne ha vinta nemmeno una.
"Brasile! Ha vinto partita! Complimenti!"
"Ah, capito. Grazie!"
Bene, questo sì che è praticare il dialogo interculturale. Prepariamoci alla festa quindi, perché qua si festeggerà comunque.
Ma torniamo allo zerbino. O quasi.
Esco di casa, l'altro ieri. E trovo il delirio: polizia, gente in strada, ambulanze e molte facce cupe. Non resisto e chiedo al ragazzo che gestisce il call-centre che cosa sia accaduto. E' morto un ragazzo bruciato vivo in casa in un palazzo a due passi da casa mia. Una scena davvero triste. Non riesco a dimenticare gli sguardi dei ragazzi, suoi coinquilini che riuniti all'angolo della strada, si guardano smarriti. Una volta in ufficio - non senza essere tornato di nuovo a casa per prendere i cellulari che avevo dimenticato per l'ennesima volta - leggo la triste cronaca e capisco meglio.
Quando passo davanti al palazzo la sera, rientrando verso casa, non posso non notare i mazzi di fiori davanti al portone.
Le signore del palazzo si siedono a chiacchierare davanti al portone di solito e là le trovo: chiedo loro se hanno visto qualcuno portarsi via uno zerbino.
"E' stata sicuramente V. - Mi rispondono le signore! - E figurati se qualcuno se rubba no zerbino, ma cche semo 'mpazziti!? Mo' jo dico io a 'ssu madre che a deve tenè a bbada a regazzina!"
"Ma cche ddici? So' trent'anni che cce combattemo...."
Interrompo con educazione e dico: "Vabbè non vi preoccupate, è solo uno zerbino!"
"Viè cco' mme", mi dice una di loro.
Mi porta in giro per il palazzo e scopro angoli reconditi che non conosco. Parti del cortile, sottoscala... posticini sconosciuti.
Tant'è... che lo zerbino spunta fuori in un sottoscala.
Chi l'avrebbe mai detto che talvolta la riconciliazione va cercata nei sottoscala? Mai dare nulla per scontato. Mai!

sabato 12 giugno 2010

Essere altrove: Akasaka-dori/Wetstraat


Bruxelles, 08/06/2010

Ogni volta che percorro Rue de la Loi con i suoi edifici in vetro, sono scosso, percorso e sconvolto dai brividi.
Vorrei vivere la mia vita altrove.
Altrove da dove? Non lo so.
Il mio cervello si auto-tele-trasporta verso Akasaka-douri, una stradina toruosa nel centro di Tokyo. In fondo su una collina, verso Tameikesanno, un grande santuario scintoista lo Hie Jinja. Per arrivarci occorre salire su per una sfiancante scalinata. Dal tempio fino ad Akasaka-Mitsuke è tutto un serpentello che a sua volta però è costretto (soccombe) nelle grinfie di altissimi grattacieli.
E mentre percorri il serpentello e i grattacieli ti guardano, imprimi nelle tua memoria ricordi che poi torneranno mentre percorri Rue de la Loi a Bruxelles e immagini di voler vivere altrove.
Cè una stradina dietro questi eco-mostruosi palazzi della Commissione Europea, una stradina insignificante se volete, un rimasuglio di quello che doveva essere questo quartiere prima della venuta degli Europei. Jozef II Straat è breve breve piena di casette con centri religiosi di ogni sorta, casette tipicamente belghe: finestre ampie in legno, inferriate sui piccoli balconcini, mattoni fuori, strette e lunghe, ardesia sul tetto.
Accade un prodigio su uno di questi balconi fagocitati dall'edera.
Mentre di fronte, nelle prime ore del mattino il grande ventre della Commissione Europea si sveglia per digerire i contenuti dell'eco-mostruoso palazzo di vetro, un papà rincorre un bambino biondino sul balcone di casa e lo riporta dentro.
Ecco, vorrei essere altrove.
Vorrei essere la scenetta del papà che rincorre il bambino nel bel mezzo dei grattacieli di Tokyo, senza però per questo smettere di potere essere me stesso.
Non so come si chiama la strada che percorrerò domani, se sarà su "quel pezzo di roccia che ruota nell'Universo" o se sarà nella città dei cavoletti o in quell'eterna. C'è continuità di soluzione.
Un cosa so: voglio sempre essere altrove da dove sono.

venerdì 21 maggio 2010

Umore

Ci sono dei momenti in cui mi sento di poter percorrere la lunghezza della città da nord a sud, da est a ovest di corsa; tutto d'un fiato.
Ci sono dei momenti in cui non credo di avere le energie necessarie nemmeno per attraversare le strisce pedonali di piazza Vittorio.

L'umore. Che strana compagine di ormoni e altri agenti attraversano il nostro corpo in ogni istante. Troppo strana per me in questo periodo. E c'è che non riesco più a controllarli. Mi attraversano come i raggi di sole troppo rari in questa primavera che non arriva più.

Ma perché? E' proprio questo che non riesco a riconoscere. Mi uccido nella ricerca delle motivazioni di questi stati altalenanti di animo. Sono come foglie d'autunno che cadono sulle nostre anime congelate. Oppure come petali freschi e vellutati di rosa sui corpi profumati delle ragazze cinesi in strada.
Che consunzione. Trovare pace è proprio complicato, forse perché si dovrebbe non cercare pace.
Eppure mi guardo e mi dico che non mi manca niente. La casa, gli amici, la famiglia, i soldi, gli amori e gli affetti.
Oppure non mi accorgo che mi manca tutto.
E' ora che mi prenda una vacanza.
Da me stesso.

giovedì 13 maggio 2010

Musica

Poi Reiko cominciò a dire una cosa molto strana: "Dottore, perché non sento la musica?"
Y. Mishima

La pioggia di primavera fa sì che i giorni si inseguano come folate di vento fra un piovasco e l'altro.
Per le strade vieni travolto dall'odore del sambuco in fiore, quello che fiorisce sul ciglio erboso e incolto nelle stradine del Pigneto. Poco più giù, con violenza, vieni investito da folate di profumo di fiori di gelsomino. Come si può non pensare a Montale, alla mente che "indaga, accorda, disunisce?"
Vaghi e ci ripensi. E la mente, tutto fa, meno che ricucire.
L'ho comprato un mesetto fa quel libro, insieme a tanti altri, perché in libreria c'erano gli sconti. E' rimasto vittima dell'inerzia di queste settimane languide e stanche, ancorché primaverili.
Caso ha voluto che leggessi di questa donna che (fa finta, ma dice che) non riesce ad ascoltare la musica, mentre io per la prima volta dopo tanti (troppi) anni rispolvero il flauto traverso per riempire di colori la casa. Il colore delle parole. Il colore dei suoni. Il colore della musica.
Mi esercito con cocciutaggine a fare le scale, poi una domenica ho deciso di fare una pausa.
Ho preso la bici, a dispetto del tempo capriccioso. I vestiti imbevuti di gocce di pioggia, le scarpe grondanti.
Nel parco non potevo che pensare, pedalando, alla siepe e a ciò che si cela oltre.
No, non a Leopardi. Non risponde alle segrete intenzioni di queste giornate.
Poi è arrivato lui. E ora, con pazienza, ascolta la mia musica.

sabato 24 aprile 2010

Problemi di "cuore"

Sono uno facile da lasciare,
ancor più facile da dimenticare.

Sono troppo stancante per essere amato,
un elemento chimico volatile.


Il mio cuore è debole, lo è sempre stato. Vulnerabile agli attacchi esterni. Adesso è tempo di prendermene cura, altrimenti potrebbe decidere di non essere più adeguato a farmi compagnia con il suo deciso battito nei prossimi anni della mia vita.
Tutti mi ricordano che non è nel cuore che risiedono le emozioni legate ai sentimenti e, in particolare, all'amore. Ho sempre avuto qualche dubbio, ho sempre preferito mettere in discussione il ruolo del cervello, per preferirne uno più tribale del cuore.
Mi piace ascoltarlo quando nelle sue frequenti tachicardie si ribella contro il mio modo di vivere, contro la mia scarsa capacità di isolamento dal male esterno, contro il mio essere un inetto navigatore in acque agitate.
Questo finché non ha cominciato a capitare troppo spesso. In fondo, basta fare un po' di analisi per capire cosa c'è che non va. Magari. Le analisi ti dicono appunto solo cosa c'è che non va. Di lì a trovare la terapia...
Sono malato di cuore: il mio cuore è malato. Almeno adesso ho una certezza dalla quale partire e grazie alla quale posso approfondire quali sono le cose che non vanno.
Anche se sono un po' scoraggiato. In fondo non è una cosa nuova, ci convivo da parecchio tempo. Si tratta forse solo di avere pazienza e prima o poi la via d'uscita da questo labirinto labirintico la troverò.
Per ora mi devo prendere cura del cuore. Comincio da quello fisico, con la convinzione che arriverò anche a quell'altro.
Un giorno.

domenica 4 aprile 2010

Resurrezioni


Come si può conciliare la vista di un cortile interno della periferia storica romana con uno sguardo mozzafiato sui monti?
Come si possono mettere insieme le giornate di un bambino che corre e osserva la natura rifiorire con le corse affannate attraverso lo smog metropolitano?
Riconciliare per riconciliarsi è un percorso lento e faticoso. Infinito. Non conosco sosta e mi consumo nel procedere in questo percorso accidentato. Non mi riesce proprio.
Gli inutili tentativi mi riportano sempre con un secco e amaro tonfo verso l'amara realtà. Non è possibile conciliare quello che sono ora con quello che sono stato fino a dieci anni fa.
Dove non ci può essere riconciliazione, c'è una cesura netta e una rinascita. Una resurrezione.
Io credo nelle resurrezioni: se volete, ve ne racconto una. Se mi conoscete, guardatemi con questi occhi e scoprirete che questa storia la conoscete già, almeno in parte.
Non mi chiedete però se questa vita è migliore della precedente, sarei incapace di darvi una risposta soddisfacente. Gioie e dolori si alternano come nella migliore delle passioni cristiane, una sorta di via crucis laica che si conclude con una resurrezione che ha un qualcosa di diabolico.
Come posso non guardarmi indietro?
Io sento ancora le rondini del balcone di casa dei miei, i gabbiani che mugugnano i loro sgraziati suoni sui balconi di Monteverde, le gazzarre di uccelli nella Caffarella, il merlo nel cortile di Torpignattara...
Come posso non guardare avanti?
Vedo un aereo che decolla, una serata in solitudine davanti a un tè ben caldo, una risata davanti a una birra al Pigneto, un neonato che piange davanti ai miei occhi paterni assonnati e rassegnati, un orologio che ticchetta stanco i suoi secondi che non corrispondono alla percezione dei miei.

Non riesco mai ad accendere un incenso quando vado a fare visita alle tombe dei miei nonni.

giovedì 11 marzo 2010

Mine vaganti nel paese delle meraviglie

Vorrei sapere se la tua pelle profuma di vaniglia. O forse di lavanda.
Vorrei capire se preferisci guardare un lago seduto su una roccia oppure camminare sulla spiaggia d'inverno.
Vorrei scrutarti mentre la mattina decidi se preferisci il dolce al cioccolato, oppure quello alla crema.
Vorrei vederti mentre ti aggiri in libreria, se scegli un noir o un thriller.
Vorrei sapere se di sera mentre ritorni verso casa guardi gli altri trasognato sui mezzi pubblici o guardi semplicemente il nulla.
Vorrei sapere se ti appassiona rimanere per ore a guardare il cielo che si annuvola.
Vorrei vederti affrontare lo sguardo interrogativo di un tuo familiare.
Vorrei vederti mentire al tuo migliore amico o scrutare nei suoi occhi alla ricerca della tua verità
Vorrei vederti guardare avanti, con convinzione, un futuro incerto.
Vorrei vedere queste mani sprofondare fra i capelli mossi dal vento.
Vorrei ascoltare quella vecchia canzone che non ricordavi più.
Vorrei capire se un giorno, tenendoti per mano, cammineremo insieme su quel ponte con la luna a illuminare i nostri passi.
Vorrei sapere se i suoni che provengono da fuori sono sempre gli stessi o sono cambiati.
Vorrei sapere se il profumo che porti è finito o se ne hai comprato uno nuovo.
Vorrei vederti, per strada, allontanarti e perderti fra le altre figure scialbe della sera.
Vorrei sapere se quel fiore che ho piantato fiorisce ancora o l'hai lasciato morire.

"Come si può convivere con il proprio passato? Con quello che hai fatto... Come si può convivere con i morti?"

domenica 7 marzo 2010

Quando ci si pente...


Mai avrei pensato di dover difendere Renata Polverini...
La candidata Presidente della Regione Lazio per il neonato partito PDL - Panino delle Libertà stavolta ha proprio ragione e quando c'è da denunciare c'è da denunciare e basta.
L'anno scorso ho dato il mio 5x1000 a Greenpeace, credendo di fare cosa buona e giusta. Ora non so quanti soldi ho dato loro, ma credo di avergliene dati parecchi viste le varie migliaia di euro di tasse che ho pagato l'anno scorso.
Ora, vediamo un po' le cose...
Fai dei manifesti contro la Polverini: figurati se non sono d'accordo, visto che non mi sto risparmiando in questi giorni a fare votare la Bonino!
Contesti il nucleare: d'accordissimo, è l'ultima cosa di cui ha bisogno in questo momento l'Italia!
Per fare quindi un atto polemico, per andare su qualche giornale e farti pubblicità, tu che sei paladino di difesa dei diritti e dell'ambiente che cosa fai?
1. Imbratti Roma di manifesti, come se ce ne fossero già pochi, contribuendo così allo schifo in cui versa questa città.
2. Ti appropri indebitamente dell'immagine (peraltro di dubbia bellezza!!) di una candidata alle elezioni, commettendo quindi anche un reato.
3. Non firmi i manifesti: ovvero, fai la porcata e poi non hai nemmeno il coraggio di metterci la faccia. Tiri il sasso e poi ritiri la mano...

Che queste elezioni fossero una porcata generale, l'avevano denunciato i radicali per primi, ma che ora anche la cosiddetta società civile debba buttarsi in questo fango mi sembra veramente troppo. Ognuno dovrebbe fare il suo mestiere, ma nessuno lo fa. Da una parte, la politica affarista e corrotta, sgamata con le mani nel vasetto della marmellata, che continua a umiliarci con le sue porcate e va avanti indefessa facendo carta straccia della Costituzione; dall'altra, una società civile che si fa coinvolgere nelle porcate e anziché continuare a fare diligentemente il proprio lavoro di riduzione del danno a livello sociale, si lancia in abusi e soprusi.
Che dire? Penso di aver fatto bene a lasciare perdere il volontariato, almeno per un periodo della mia vita. Penso che in momenti come questi (pur continuando ad andare a tutte le sacrosante manifestazioni che si fanno) sia meglio dedicare del tempo a se stessi. A tentare di ritrovarsi in questa poltiglia generalizzata in cui è difficile ricomporre le ragioni del proprio essere onesti, non ipocriti e solidali.
Diciamo che almeno ho maturato un'ulteriore certezza, visto anche l'avvicinarsi della campagna fiscale e della stagione delle dichiarazioni dei redditi: oltre al non aver mai dato il 5x1000 al Vaticano e allo Stato (che poi lo ridà a Papa Ratzy), mai più i miei soldi a Greenpeace!
E se avete qualche suggerimento su dove andare a fare volontariato, i consigli sono bene accetti.
Io intanto preparo il mio viaggio in India...

sabato 27 febbraio 2010

maledetta primavera


1."Some of them want to use you
Some of them want to get used by you
Some of them want to abuse you
Some of them want to be abused"


Alcuni vogliono abusare di te

Ho dato. E pure ampiamente. Credo che sia ora che smettano. E da adesso in poi al primo cenno di abuso, scatta la sanzione. Chi mi vuole non potrà più abusare di me. E aggiungo; chi l'ha fatto ha già pagato. Chi lo farà, sarà escluso dalla mia vita come altri già prima. Uomo avvisato...

Alcuni vogliono usarti.
Non l'ho mai permesso a nessuno e quando, inconsapevole, mi sono fatto usare, le conseguenze sono state disastrose. Talvolta, essere vendicativi non solo è opportuno, è indispensabile.

Alcuni vogliono essere utilizzati da te.
E' la categoria più numerosa di persone da cui sono circondato. Ma non cado nella trappola! Posso davvero vantarmi di non aver mai usato nessuno. Ho tantissimi difetti, ma ho sempre detto no a chi ha voluto strumentalizzarmi per essere usato. Io lo ritengo davvero un reato e combatterò contro la volontà perversa di chi vuole essere utilizzato da me.
Il volontariato lo faccio altrove. Esperienze di vita recente me lo hanno insegnato. Si pagano duri prezzi quando si rifiuta di essere sussidiari alle deficienze (in senso stretto e largo) altrui.
"I don't want to be the substitute for the smoke you've been inhaling".

2.
Scambio di sms.

Anche se eravamo davanti a un CIM quando per caso noi due a braccetto camminavamo verso il nostro ristorante, rinfranchiamoci, il caso lo ha voluto. Stava lì in macchina e in qualsiasi momento poteva passare da lì. E invece è passat* proprio in quel momento. Non dovevamo stupirci. In fondo ormai la conosciamo no, questa città alla sliding doors del cazzo, Roma...
Sì eravamo davanti un CIM. Sottolineo... Davanti, non dentro!!!!!!
I."Sono molto stressato e confuso....Oggi è la prima giornata primaverile e come sempre mi accompagna questo stato d'animo"
II."Insieme ai germogli si svegliano anche le erbacce e le piante velenose che bisogna diligentemente e metodicamente estirpare per avere un buon raccolto estivo... giacché l'erba cattiva non muore mai sta a noi sopprimerla, immagino."
I."Dilemma: l'erba cattiva sono io e questo è certo. E so di dovermi autosopprimere... ma fa tanto male."
II."Anche io penso questo di me - non di te! soprattutto in questi giorni. sicuro è la primavera... per quanto mi riguarda lotto per non perdere di vista quella misera piantina buona soffocata dalle infinite erbacce."

Hai detto proprio bene... diligentemente e metodicamente...

martedì 16 febbraio 2010

Anni 80


Che meraviglia questi anni in cui io sono nato, ma che non ho vissuto. Quanto erano meglio di questi che dovrebbero essere i migliori anni delle nostre vite. E invece ci ritroviamo sprofondati in un mare di precarietà, falsità e tutto-quanto-è-di-facciata-ma-ci-va-bene-lo-stesso...
Li vedete? Tutti quei bei giovani che si agitano sulle piste delle discoteche, capelli cotonati e giacche a quadroni semi-orride a colori sgargianti. Ciuffi biondi che vanno all'impazzata avanti e indietro. Fiumi di alcol (manco troppi) e droga (non se ne parla nemmeno)?
Io non li ho vissuti quegli anni, nel 1989 avevo solo 8 anni.. ma...
Nella provincia cosentina in una stanza di un apaprtamento al primo piano ci rinchiudevamo e con degli effetti luce molto artificiali e casalinghi con le mie cugine adolescenti e ce la ballavamo alla grande...
"10 o'clok postman, bring me a letter..."!!!!
E cantavamo e ci travestivamo e facevamo baldoria, alla faccia degli adulti di casa che non capivano cosa sarebbe stato di noi fra una ventina d'anni.
Oggi quasi mi viene da ridere eppure, io sono proprio figlio di quegli anni e mi torna nostalgia dei capelli cotonati, delle giacche a quadroni e dei fuseau di colori strampalati addosso alla ragazze dell'epoca e quindi, anche se adesso mi vien da ridere - se penso che c'è persino facebook e ci sono gli sms - me la canticchio ridendo e dicendomi:
"Postino delle 10 del mattino
portami una lettera
postino delle 10 del mattino
fammi sentire meglio
così tanti giorni che la conosco;
postino delle 10 del mattino
portami una lettera!"

Perdonate la traduzione forse un po' frettolosa della canzone dei Secret Service ma era giusto per mettere una colonna sonora a questo mio sentire, e poi, ma cosa sarebbero gli anni 80 senza la meravigliosa disco music spensierata e cazzara che li contraddistingue?
E allora in questi giorni vediamo se mi riesce, ritorniamo in quel di quegli anni e cotoniamoci i capelli che ci restano e vediamo cosa ci portano queste serate post-invernali, acquose romane...

PS E per chi avesse dimenticato la mitica canzone:
ascoltatela su youtube!
buon divertimento!

domenica 31 gennaio 2010

Corpo


Un po' di tempo fa ho letto un libro molto affascinante. E' un romanzo di Hanif Kureishi e si intitola "The body". Racconta di un uomo di mezza età che per degli eventi fortuiti si vede offrire un cambio di corpo. Si reca in una clinica dove viene accompagnato in una cella frigorifera a scegliere il suo neo-corpo. Dopo averne visti vari,ne trova uno giovane, bello, muscoloso. I chirurghi trapiantano il suo cervello nel neo-corpo, l'uomo si sveglia dopo l'operazione e ri-comincia questa nuova vita. Potrebbe essere il sogno di molti o l'incubo di alcuni.
Il finale delle belle storie non si racconta mai. Chi è curioso, può leggerlo e soddisfare la propria curiosità.
Ho sempre creduto che i nostri corpi siano avvolti da un'aura di sacralità per via della loro unicità. I nostri corpi sono opere d'arte irripetibili a prescindere dalla loro riconosciuta bellezza o bruttezza. Ognuno di noi ha il suo e nei giorni della nostra vita li usiamo, li vediamo, li tocchiamo, li consumiamo lentamente - tutto ciò senza neanche accorgercene per la massima parte del tempo.
Penserete che questa riflessione sia frutto di una visione materialista delle cose, come ci si aspetterebbe da uno come me, ma permettetemi di dirvi che non è così. E' proprio per il connubbio tra corpo e spirito, per l'unicità che da questa fusione deriva, che ritengo i nostri corpi sacri, intoccabili, non più riproducibili.
"Segnare il proprio corpo, significa costruirsi un corpo segnato" scriveva non so più chi in un saggio sul transessualismo/transgenderismo. L'arte, l'usanza, l'abitudine, il folclore di segnare il proprio corpo è materia di antico studio etno-antropologico su cui non oso soffermarmi, poiché non ritengo di averne le competenze necessarie.
Mi è capitato proprio ieri di assistere a uno spettacolo che qualcuno definisce body art. Corpi vilipesi, straziati, doloranti, appesi, infilzati, colorati, lacerati, denudati, esibiti in scene per me raccapriccianti.
Non riesco a raccogliere le parole giuste per definire la sensazione di sdegno e di disgusto che ciò ha provocato in me. Mi riesce difficile anche descrivere come vorrei, queste esibizioni che qualcuno definisce arte. E proprio perché qualcuno le definisce arte, per rispetto, evito di definirle con parole mie che tutto rappresenterebbero, meno che l'espressione artistica.
Le facce. Quelle sì, riesco a descriverle. Le facce degli astanti. Perse, ammirate, incredule, attratte da tanto dolore ostentato, da tanta violenza, da tanto accanimento, da tanto strazio su questi corpi. Decine e decine di volti di uomini e donne che consumavano con i propri occhi queste scene. Famelici. Questo è stato per me il vero spettacolo. Vederli persino applaudire. Applaudivano un massacro.
Mentre l'iconografia rappresenta di solito il raccapriccio davanti alla scena di tortura di Cristo o di altri personaggi religiosi o laici, oggi un nuovo quadro rappresenterebbe questi visi con la gioia dell'osservazione dello strazio. Espressione ossimorica, qualcuno direbbe. Ed è proprio di questo ossimoro che non riesco a capacitarmi; mi rifugio quindi nella consapevolezza di essere un po' limitato, nel non riuscire a concepire questa gioia che si deriva dall'osservazione estasica dello strazio.
Sono stato costretto a reinventare la mia modalità di fruizione dello spettacolo per trovare un senso alla serata. E ho scoperto che è nell'osservazione delle persone che riescono a identificare elementi artistici in tanto orrore che sta il mio spettacolo.
Con la conclusione che costringerei i tanti, e soprattutto ai performer, ad andare a bagnarsi nei già copiosi fiumi di sangue che madre natura sta facendo scorrere ad Haiti.

martedì 26 gennaio 2010

Ferro 3 - La casa piena


Comincia a prendere forma questo posto che chiamo la mia casa.
E mi rendo conto che in quest'anno passato ho distrutto, ma ho anche costruito... E tanto. Lavoro, casa, affetti.

Queste mura cominciano a raccontare qualche storia che mi appartiene. Poco tempo fa mi guardavo attorno e non ci credevo ancora.
28 anni, 3 mesi e 13 giorni che mi tengo dentro questo nodo alla gola.
Una casa; e ora pezzettino per pezzettino la riempio. Quando le parlo, risponde ai miei desideri, anche a quelli più intimi.
E intanto comincia a vivere dei ricordi. Gli incensi che bruciano davanti al mio Daibutsu scacciano via i pensieri malevoli. Un'ulteriore pulizia mi ha liberato della feccia del passato.

Piove tanto in questi giorni. Sulle automobili, le gocce diventano ghiaccio la notte. Dai vetri guardo il cortile e il gatto del palazzo mi osserva con occhi inquieti.
Gli spazzolini in bagno aumentano. Segno che la casa vive e con essa vive chi vi passa.
______

Sono andato a casa tua
sono salito su per le scale
ho aperto la porta senza suonare al citofono
ho camminato giù per il corridoio
nella tua stanza
dove sentivo il tuo odore
e io non dovrei essere qua, senza permesso
non dovrei essere qua.

Mi perdonerai, amore
se ho ballato nella tua doccia
Mi perdonerai, amore
se mi sono steso nel tuo letto
Mi perdonerai, amore
se rimango tutto il pomeriggio

Mi sono tolto i vestiti
e ho indossato i tuoi
ho aperto i cassetti
e trovato il tuo profumo
sono andato negli scaffali
e ho trovato i tuoi CD
ne ho messo uno su
non dovrei rimanere a lungo, potresti tornare presto
non dovrei rimanere a lungo

Mi perdonerai, amore
se ho ballato nella tua doccia
Mi perdonerai, amore
se mi sono steso nel tuo letto
Mi perdonerai, amore
se rimango tutto il pomeriggio

Ho bruciato il tuo incenso
ho fatto un bagno
ho notato una lettera sulla tua scrivania
diceva "Ciao amore, ti amo così tanto, vediamoci a mezzanotte."
E no, non era la mia grafia
meglio che vada via presto
non era la mia scrittura.

Allora perdonami amore
se piango nella tua doccia
Allora perdonami amore
per il sale nel tuo letto
Allora perdonami amore
se piango tutto il pomeriggio

lunedì 18 gennaio 2010

Serenità



L'ho cercata a lungo. Insperata, è arrivata. Queste serate sono la panacea di ogni male, pace dei sensi. Inattesa tregua a ogni giorno triste e malinconico.
E' stato un lungo percorso a ostacoli, ma adesso il ciclone ha spazzato vi a tutto.
Un aperitivo fra amici, una birra strana e qualche risata.
Un fine settimana strano, passato in calma.
Un mobile di antiquariato trovato e comprato, la gioia di doverlo restaurare.
Un caffè che ti fanno al mattino.
Un sorriso di un passeggero sul mezzo che ti porta al lavoro.
Uno sguardo all'albergo dove ho dormito quando sono venuto in gita a 13 anni per la prima volta a Roma.
Una telefonata affezionata e inattesa.

Accendo una candela al nuovo ospite della mia casa e medito su questa serenità insperata.

domenica 3 gennaio 2010

Grazie


"How about me not blaming you for everything
How about me enjoying the moment for once" A. M.



Grazie a Salvatore che anche quest'anno è riuscito ad arrivare fino in fondo. Grazie alla sua salute che ha saputo resistere ad attacchi pesanti sferrati da ogni parte: psicologici da parte di chi doveva amarlo, autolesionisti e masochisti da se stesso, virali dalle varie malattie che lo hanno minacciato in ogni dove. Grazie di essere stato in grado di resistere a tutti questi attacchi e di essere giunto anche in fondo a questo calendario.

Grazie al mio lavoro che mi ha dato la possibilità di affondare i piedi in alcune sicurezze. Grazie alle persone che vi ho incontrato che mi hanno accompagnato nella scoperta di questo mondo nuovo. Chi mi ha accompagnato per mano e mi ha sorretto, anche mentre facevo equilibrismo su una fune. Chi mi tirava per i capelli, mentre io volevo strapparmeli tutti. Chi mi ha dato leggerezza, quando ogni cosa mi pesava addosso come un macigno. Chi mi ha adottato, prendendosi cura di me come un pietra preziosa che si scalfisce ad ogni caduta e mi ha protetto, mi ha viziato, mi ha sopportato. Grazie a chi mi ha dato modo di sfogare le mie e altrui numerose sofferenze, a sdrammatizzare la pausa pranzo in cui non potevo fare a meno di inghiottire le mie maddalenine al veleno.

Grazie alle compagne e ai compagni della mitica Tsuru-tsuru vacanza di quest'anno. Grazie a delle bottiglie di birra svuotate, mentre percorrevamo stradine immerse nella salsedine e alla luce di una luna triste come i nostri occhi. Grazie ai loro piccoli grandi mondi che entrando nelle orbite della mia minuscola galassia hanno percorso insieme a me momenti particolarmente dolorosi, hanno mangiato sulla stessa tavola chili e chili di sale insieme a me. Grazie a loro, ho ricominciato una vita degna di questo nome, perché ho scoperto tramite la bellezza e fragilità di ognuna delle loro vite, che a nessuno si può sacrificare la propria.

Grazie a una persona di cui non ho voglia di scrivere nemmeno l'iniziale. Grazie a te che hai saputo vaneggiare nella tua sempre possente irresponsabilità, creando marasmi di cui non sei nemmeno stato capace di controllare la portata.
Grazie alla tua "vuotezza", al tuo farmi sentire "uninvited" sempre e comunque. Grazie al ricordo che mai dimenticherò di leggere la gioia nei tuoi occhi nel vedere lo stoico contorcersi per il dolore. Grazie ai chili di sale cuciti nelle mie ferite, un sale che ora sgorga sulla mia pelle levigandola e rendendola sempre più resistente alle frustate della superficialità e dell'irresponsabilità di gente vacua come te.
Grazie a te che parli del mio amore come se ne avvessi già vissuto uno così prima. Grazie alla spregiudicatezza con cui piccoli mosaici composti con fatiche enormi sono stati scomposti, cancellati e gettati in una poltiglia fangosa e nella quale rimarranno per sempre.

Grazie alla mia famiglia che mi rende quello che sono, quello che vivo e quello che sento. Grazie al loro inesauribile affetto, pochi giorni fa, per la prima volta, uscito di casa a SGF, ho preso l'aereo, sono arrivato a casa qui a Roma ed era come se avessi attraversato semplicemente la strada.
Grazie a voi ho un mio nido, ho un mio posto, un mio ricovero. Non mi sento più solo. Siete con me, anche se non lo sapete, proprio come adesso mentre scrivo queste righe traballando su un treno ad alta velocità che va verso casa, verso di voi che non la abitate fisicamente, ma la riempite con il vostro calore, i vostri respiri. Grazie alla nonna, che mi ha lasciato il più bel ricordo di quest'anno. Ti porto con me anche in questo anno nuovo e ti conservo fra i miei spazi più intimi, ti cullo fra le mie gioie, ti accendo un incenso e ti dico: continua a volermi bene anche adesso come te ne vuole tuo nipote quando ogni mattino riapre gli occhi e affronta una nuova giornata, un nuovo anno.