Saprei
identificare con precisione il momento in cui mi sono davvero sentito
povero. Quella consapevolezza silente si è trasformata in un dato di
fatto, materializzata in un batter d'occhio in un fatto inconfutabile.
Avevo
ricominciato a vivere da poco. La ia vita precedente, con cui faccio
ancora molta fatica a relazionarmi era ormai alle spalle. O almeno così
credevo. Una cesura netta, un solco temporale molto stretto che divide
due momenti dell'esistenza che non hanno nessun filo in comune emotivo.
Hanno dei luoghi, delle persone, dei ricordi ma due liveli emotivi che
mi sono rassegnato a definire inconciliabili.
Accade poi il
momento magico in cui tutte queste cose che senti, che percepisci,
diventano realtà, prendono corpo e sostanza, tanto da riuscire persino a
definirle e scriverle.
Quell'invito a cena era arrivato quasi
inatteso. Non sapevo nemmeno il motivo, come può mai un professore
universitario ritenere "degno" di nota un insignificante, povero,
sprovveduto allievo del meridione d'Italia? Addirittura degno di una
conversazione davanti a una cena nel suo appartamento in uno dei palazzi
più gloriosi di Roma...
Quei luoghi inavvicinabili. Li avevo
guardati da ragazzino, a 13 anni con sguardo sgomento, più che
meravigliato. Il palazzo più alto che avevo mai visto aveva sei o sette
piani, orrendo, fuori posto. Non si capiva che ci facesse quel
condominio tozzo in quell'ammasso di case e cemento spalmate su quella
montagna. Per non parlare della bellezza e dello sfarzo di tutto ciò che
vedevo. I cornicioni, i fregi, un balcone, i colori, la cura e il senso
del bello che ti schiaffeggiavano mentre camminavi. un senso di
stordimento indimenticabile.
Quando poi sono arrivato, quasi
figlio di nessuno, borsone alla mano depositato in una periferia
maleodorante ho deciso di vagare.
Il mio cervello non ricordava
quasi nulla dell'hotel romano in cui avevo trascorso quelle giornate:
c'era però un dettaglio di non poco conto che mi si era scolpito nel
cervello. Di notte i bagliori fuori dalla finestra, delle scintille e
uno stridere terrificante di ruote sui binari. Ferro contro ferro.
Girovagavo,
la zona era quella. Il profumo acido, la sporcizia imprecisata e
dilagante: il tutto a ridosso del serpentone infinito dei binari della
stazione Termini. Un incrociarsi di vite umane che nulla poteva avere a
che vedere con il monotono incrociarsi delle sempre stesse esistenze del
paese di provincia.
Uno stordimento incredibile, un non
ritrovarsi. Poi il ricordo dei bagliori e delle scintille notturne. Del
rumore, del ferro contro il ferro. Mi ero seduto, stanco e anche un po'
rassegnato a Porta Maggiore. Un pomeriggio d'estate ancora non troppo
caldo. L'erba delle aiuole attorno alla porta romana cresceva
indisturbata: vi strisciava di tutto, rettili, roditori, umani. Piante
di cappero invadenti crescevano indisturbate; d'altronde la natura vince
sull'uomo, quasi sempre. Persino quando quest'ultimo riesce a lasciare
traccia del suo glorioso passato millenario. Era così che sotto le
foglie della pianta di cappero sparivano l emani degli scalpellini che
con tanto sudore e tanta fatica avevano levigato la pietra. La natura
vince, sempre.
Quel turbinio di pensieri viene interrotto, d'un
tratto, dalle scintille del tram. Bestia irrequieta, si ribella contro
il suo percorso solito, vuole forse fuoriuscire dai binari, ci prova
almeno. Non ci riesce e sbotta: le scintille si spandono in un
battibaleno: sembrano l'urlo di qualcuno a cui non sia riuscita
un'impresa agognata. Un urlo improvviso, breve, esasperato. Quelle erano
le finestre dell'hotel. Ecco ora ricordo: mi affacciavo a guardare la
vita che scorreva tutta la notte, mi svegliavano quei rumori ferrosi,
quelle scintille che rischiaravano la relativa quiete notturna. Poi
soccombevo anche io al sonno, un sonno più sereno. Sapevo che quella era
la mia strada di fuga, un luogo in cui poter vivere, in cui poter
tentare la sopravvivenza.
Solo la distanza temporale da quei
giorni, la possibilità di guardare alla loro esistenza con distacco
cinico mi permette di non soccombere: stavo imparando a gestire la mia
quota personale di dolore del mondo.
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