venerdì 28 luglio 2017

Ferro contro ferro. Quasi tutto ha un inizio.

Saprei identificare con precisione il momento in cui mi sono davvero sentito povero. Quella consapevolezza silente si è trasformata in un dato di fatto, materializzata in un batter d'occhio in un fatto inconfutabile.
Avevo ricominciato a vivere da poco. La ia vita precedente, con cui faccio ancora molta fatica a relazionarmi era ormai alle spalle. O almeno così credevo. Una cesura netta, un solco temporale molto stretto che divide due momenti dell'esistenza che non hanno nessun filo in comune emotivo. Hanno dei luoghi, delle persone, dei ricordi ma due liveli emotivi che mi sono rassegnato a definire inconciliabili.
Accade poi il momento magico in cui tutte queste cose che senti, che percepisci, diventano realtà, prendono corpo e sostanza, tanto da riuscire persino a definirle e scriverle.
Quell'invito a cena era arrivato quasi inatteso. Non sapevo nemmeno il motivo, come può mai un professore universitario ritenere "degno" di nota un insignificante, povero, sprovveduto allievo del meridione d'Italia? Addirittura degno di una conversazione davanti a una cena nel suo appartamento in uno dei palazzi più gloriosi di Roma...
Quei luoghi inavvicinabili. Li avevo guardati da ragazzino, a 13 anni con sguardo sgomento, più che meravigliato. Il palazzo più alto che avevo mai visto aveva sei o sette piani, orrendo, fuori posto. Non si capiva che ci facesse quel condominio tozzo in quell'ammasso di case e cemento spalmate su quella montagna. Per non parlare della bellezza e dello sfarzo di tutto ciò che vedevo. I cornicioni, i fregi, un balcone, i colori, la cura e il senso del bello che ti schiaffeggiavano mentre camminavi. un senso di stordimento indimenticabile.
Quando poi sono arrivato, quasi figlio di nessuno, borsone alla mano depositato in una periferia maleodorante ho deciso di vagare.
Il mio cervello non ricordava quasi nulla dell'hotel romano in cui avevo trascorso quelle giornate: c'era però un dettaglio di non poco conto che mi si era scolpito nel cervello. Di notte i bagliori fuori dalla finestra, delle scintille e uno stridere terrificante di ruote sui binari. Ferro contro ferro.
Girovagavo, la zona era quella. Il profumo acido, la sporcizia imprecisata e dilagante: il tutto a ridosso del serpentone infinito dei binari della stazione Termini. Un incrociarsi di vite umane che nulla poteva avere a che vedere con il monotono incrociarsi delle sempre stesse esistenze del paese di provincia.
Uno stordimento incredibile, un non ritrovarsi. Poi il ricordo dei bagliori e delle scintille notturne. Del rumore, del ferro contro il ferro. Mi ero seduto, stanco e anche un po' rassegnato a Porta Maggiore. Un pomeriggio d'estate ancora non troppo caldo. L'erba delle aiuole attorno alla porta romana cresceva indisturbata: vi strisciava di tutto, rettili, roditori, umani. Piante di cappero invadenti crescevano indisturbate; d'altronde la natura vince sull'uomo, quasi sempre. Persino quando quest'ultimo riesce a lasciare traccia del suo glorioso passato millenario. Era così che sotto le foglie della pianta di cappero sparivano l emani degli scalpellini che con tanto sudore e tanta fatica avevano levigato la pietra. La natura vince, sempre.
Quel turbinio di pensieri viene interrotto, d'un tratto, dalle scintille del tram. Bestia irrequieta, si ribella contro il suo percorso solito, vuole forse fuoriuscire dai binari, ci prova almeno. Non ci riesce e sbotta: le scintille si spandono in un battibaleno: sembrano l'urlo di qualcuno a cui non sia riuscita un'impresa agognata. Un urlo improvviso, breve, esasperato. Quelle erano le finestre dell'hotel. Ecco ora ricordo: mi affacciavo a guardare la vita che scorreva tutta la notte, mi svegliavano quei rumori ferrosi, quelle scintille che rischiaravano la relativa quiete notturna. Poi soccombevo anche io al sonno, un sonno più sereno. Sapevo che quella era la mia strada di fuga, un luogo in cui poter vivere, in cui poter tentare la sopravvivenza.
Solo la distanza temporale da quei giorni, la possibilità di guardare alla loro esistenza con distacco cinico mi permette di non soccombere: stavo imparando a gestire la mia quota personale di dolore del mondo.

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